Continua la sfilata di testimoni citati dalla difesa dell’uomo in carcere da giugno 2016 con l’accusa di essere uno dei peggiori boss della tratta di migranti. A parlare è una donna che afferma di essere la sorellastra del detenuto sotto processo: «La moglie del vero Mered mi disse che parlò con dei poliziotti venuti dall’Italia»
Caso Mered, la parola alla sorella dell’imputato «Lui è mio fratello, non un trafficante di uomini»
«La persona seduta qui è Medhanie Tesfamariam Behre ed è mio fratello». Inizia con queste parole la testimonianza di Hiwet Tesfamariam Behre, la donna di origini eritree che ieri davanti alla seconda sezione della corte d’assise di Palermo ha negato che il giovane detenuto da giugno 2016 al Pagliarelli sia il trafficante di uomini Medhanie Yehdego Mered. Lui sarebbe un suo fratellastro, condividono infatti lo stesso padre ma hanno madri diverse. I due, tuttavia, hanno per anni vissuto insieme. Fino a quando lei non si trasferisce in Norvegia nel 2011, dove vive ancora oggi. Da quel momento i contatti con Medhanie sono solo telefonici.
«Ho saputo che a fine 2014 lui è andato in Etiopia, mi ha contattata proprio lui su Facebook per dirmelo, e poi un’altra sorella che viveva pure in Etiopia in quel periodo, Semhar, me lo ha confermato». Sono in tutto sette, tra fratelli e sorelle, quattro femmine e tre maschi. «Medhanie è stato in Sudan nel 2015, è sempre lui che me l’ha detto. All’inizio però – continua la donna – non aveva un telefono suo e ne usava uno di un amico con cui viveva, solo dopo ne ha avuto uno suo e con quello comunicavamo tramite i social e Viber. So che viveva a Khartoum, ma non ricordo più in che zona, sapevo che viveva in centro con dei suoi amici, quelli con cui era cresciuto in Eritrea».
«So che non lavorava». A dargli una mano sono soprattutto un fratello e una sorella trasferiti negli Stati Uniti e altri parenti. «Medhanie non è sposato e non ha figli», dice poi la sorella dell’uomo in carcere e a questo punto tira in ballo Lydia Tesfu, con cui ha avuto solo contatti telefonici, le due donne non si sono mai incontrate. «L’ho conosciuta solo dopo l’arresto di mio fratello, era la moglie di Medhanie Yehdego Mered il trafficante – racconta -. Ho avuto modo di parlare con Lydia di tutta questa vicenda, mi ha confermato che il padre del suo bambino non è mio fratello Medhanie Tesfamariam Behre, ma Medhanie Mered. Lei mi ha detto anche di essere stata sentita dalla polizia italiana, a cui ha spiegato chi era suo marito e alla quale ha mostrato anche una sua foto».
Hiwit chiede a Lydia Tesfu di sottoporre il bambino al test del dna, ma la donna si rifiuta: «Quando le ho chiesto di fare il test lei mi ha risposto che non poteva farlo perché la polizia non le aveva chiesto di fare questo tipo di esame. Non so con esattezza se a parlare con lei erano stati poliziotti o civili, lei mi disse solo che erano venuti dall’Italia e le avevano domandato del marito, e quest’incontro sarebbe avvenuto dove viveva lei, in Svezia. “Io devo fare via legge, perché sono venute persone di legge”, insisteva». Un passaggio, questo riferito dalla sorella dell’imputato, rimasto nebuloso, per via dei pochi dettagli conosciuti dalla donna su questo fantomatico incontro fra la moglie del trafficante e queste «persone di legge» arrivate a farle domande dall’Italia.
Un episodio sul quale anche l’accusa, adesso, spera di poter fare chiarezza con i testimoni successivi. Intanto si attende per la prossima udienza, fissata a maggio, la deposizione dell’uomo detenuto da quasi due anni e che ha sempre dichiarato di essere vittima di un clamoroso errore di persona.