A sedere sul banco dei testimoni è il giovane accusato di essere uno dei peggiori trafficanti di uomini degli ultimi anni. Un esame che continuerà in seguito e che oggi si è concentrato sul periodo trascorso in Sudan, fino al momento dell’arresto: «Mi hanno torturato per giorni, non ho avuto né un avvocato né un interprete»
Caso Mered, dopo due anni parla l’imputato «Non sono io, mai conosciuto Il Generale»
«Sono stato arrestato il 23 maggio 2016, ero in una latteria in quel momento, bevevo thè. Quelli che sono venuti per arrestarmi mi hanno dato botte, mi hanno torturato per giorni». Esordisce così, attraverso l’interprete, il ragazzo sotto processo da due anni che deve rispondere di traffico di esseri umani. E accusato di essere, soprattutto, Il Generale, uno dei trafficanti di uomini più ricercati degli anni scorsi, Medhanie Yehdego Mered. Lui però sostiene da sempre di essere vittima di uno scambio di persona e di chiamarsi Medhanie Tesfamariam Behre, un falegname eritreo in attesa anche lui di raggiungere la Libia e imbarcarsi poi alla volta dell’Europa. Quando le autorità sudanesi fanno irruzione in quel bar di Khartoum, insieme a lui ci sono altre 20-30 persone, tutti sudanesi ed eritrei. «Sono stato colto di sorpresa, non me l’aspettavo».
Racconta, soprattutto durante il controesame, qualcosa della sua vita prima di quel giorno. Fino al 2014 vive ad Asmara con la madre, Maeza Zerai Weldai. Ha quattro sorelle e tre fratelli. «Non sono sposato e non ho figli – racconta, incalzato dall’avvocato difensore Michele Calantropo -. In Eritrea lavoravo come falegname e idraulico, poi ho fatto il servizio militare, che però praticamente non finisce mai, per questo sono scappato a dicembre 2014. Sono stato per due mesi in Etiopia e poi mi sono diretto in Sudan. Sono arrivato a Khartoum il 23 marzo 2015 e da lì non mi sono più mosso fino al mio arresto». E a domanda diretta dell’avvocato, segue una risposta ferma, con una voce più sicura dell’espressione che da due anni ha dipinta in volto. «Non conosco Medhanie Yehdego Mered, non ho mai conosciuto questo nome e questa persona, io mi chiamo Medhanie Tesfamariam Behre. Mi hanno arrestato e torturato per venti giorni, non ho mai avuto un interprete e nemmeno un avvocato, mi hanno consegnato ad altre persone e non so il motivo – riferisce, ripercorrendo il momento della cattura -. Mi hanno arrestato, portato nei loro uffici e poco dopo a casa mia per la perquisizione, mi hanno detto di non entrare, di restare fuori dalla porta».
Di fronte alle fotografie dei documenti sequestrati quel giorno scuote la testa: «Non conosco questi nomi, questi numeri, non è la mia scrittura, queste non sono cose mie». Il giorno dell’arresto con sé ha pochi spiccioli, una carta d’identità eritrea, una del Sudan, e un cellulare. Un telefono che, a sentire il suo racconto, amici e coinquilini si passavano continuamente: «L’ho comprato in Sudan in un negozio che vende telefoni di seconda mano, era un Samsung. Le applicazioni c’erano già tutte, da Viber a Facebook, ma erano in arabo, quindi l’ho cambiato con la mia lingua e i miei dati. Non mi sono mai spostato da Khartoum. Se qualcuno mi chiede il telefono per chiamare, io lo aiuto, glielo do. A volte si tratta di qualche ora, altre di un giorno intero». Una circostanza che potrebbe spiegare la contestazione mossa dall’accusa, secondo cui quello stesso telefono viene geolocalizzato in altre città, a dispetto di un imputato che ripete da due anni di non essersi più spostato dopo il suo arrivo in Sudan.
Risulta, poi, tra le carte in possesso del pubblico ministero un verbale di interrogatorio, effettuato il giorno dopo l’arresto, il 24 maggio 2016. Ma anche in questo caso il ragazzo smentisce tutto: «Non sono mai stato interrogato dalle autorità sudanesi, parlavano solo arabo e io non li capivo. E tra loro non c’era nessuno che sapeva parlare inglese, quindi io stavo zitto – dice -. Mi hanno portato nel loro ufficio, poi a casa mia, poi di nuovo nel loro ufficio, poi sono venuti gli europei e mi hanno portato via. E non ho mai firmato nessun documento». Non gli avrebbero mostrato neppure quello che gli avevano sequestrato. Punto cruciale dell’esame di oggi sta, però, nelle dichiarazioni che avrebbe reso durante un interrogatorio del novembre 2016, a sei mesi dal suo arresto. Le risposte riferite in quell’occasione non somigliano affatto a quelle trascritte quel giorno. Specie sulla vicenda Libia. Nel verbale c’è scritto che lui afferma di esserci stato, ma in aula è perentorio: «Non ci sono mai andato, non mi sono mai spostato dal Sudan fino all’arresto». Il motivo è presto detto, e a chiarire tutto è l’avvocato Calantropo: «Quell’interrogatorio fu ritrascritto in presenza della gup Letizia Geraci, perché nel precedente avevo rilevato molti errori, alcuni anche gravi. Quella che sta leggendo oggi il pubblico ministero non è la versione aggiornata e depositata agli atti». Tutte le questioni legate a quell’interrogatorio verranno quindi discusse in seguito, mentre il presidente di corte ha deciso di far trascrivere nuovamente le registrazioni di quel giorno.
Opposizione, infine, da parte dell’accusa rispetto all’acquisizione dei risultati del test del Dna effettuati dalla difesa che, con un genetista al seguito, si è recata in Svezia per sottoporre all’esame Lidya Tesfu, riconosciuta dalla procura come la compagna del trafficante Mered, e loro figlio. Un risultato, quello raggiunto con questo test, che ha escluso che quel bambino possa essere del ragazzo attualmente sotto processo e che avvalora quindi la tesi dello scambio di persona. «Non siamo stati avvisati di questo viaggio e di questo test, neppure l’autorità giudiziaria, e non è stata chiesta nessuna rogatoria. Potrebbero aver sottoposto chiunque, noi non eravamo presenti», spiega il pm Ferrara, Intanto, il giudice deciderà in seguito il da farsi.