Prima di finire coinvolto nel blitz che lo ha portato a processo, il cronista di Telejato era un punto di riferimento per molti concittadini. Così come la redazione del giornale, sempre piena di studenti e stagisti. Salvo Vitale: «Dopo è sparito tutto»
Caso Maniaci, carabinieri e colleghi in sua difesa «Vicino a lui per 11 anni, mai visto una mazzetta»
«Manca la luce a Partinico? Manca l’acqua? Si rivolgevano tutti a lui». Cioè al giornalista di Telejato Pino Maniaci, oggi sotto processo con l’accusa di tentata estorsione e diffamazione. Questa l’impressione maturata nel tempo dal brigadiere Nicola Liberti, in servizio fino a tre mesi fa alla caserma di Partinico, trasferito da settembre a quella di Carini. Dal 2008 fino a prima di spostarsi nel vicino Comune, Liberti è stato praticamente fianco a fianco con Maniaci. È, infatti, uno di quelli incaricati di occuparsi della sua vigilanza e tutela. Trascorre praticamente undici anni accanto a lui, durante i quali si rende conto di quanto, in paese, il cronista sia visto come qualcuno su cui poter fare affidamento. «Io non mi sono mai accorto di questa situazione di cui oggi lo accusano – dice subito il brigadiere -. Durante il nostro servizio di vigilanza vedevo che lui veniva avvicinato da tantissime persone, perché era un punto di riferimento».
«E tutto alla luce del sole – prosegue -, mai visto prendere soldi di nascosto o sotto forma di mazzette, io queste cose non le ho mai viste altrimenti le avrei subito dichiarate al mio superiore. Io gli stavo sempre appresso, scendevo dalla macchina e stavo sempre vicino a lui. Come non ho mai visto nessuno minacciarlo, altrimenti sarei dovuto intervenire immediatamente. Forse io ero troppo in confidenza con lui, ma nessuno mi ha mai detto niente, io dovevo stargli per forza vicino, questa è la tutela. Io lo vedevo che lottava per una causa giusta», spiega. Fin dall’inizio tra i due, rivela il brigadiere ascoltato oggi al processo, ci sarebbe stato un ottimo rapporto. «Non conoscendo bene il territorio seguivo spesso Telejato o chiedevo informazioni a lui, quando magari non conoscevo qualche personaggio e volevo saperne di più». Restano sempre in contatto, fatta eccezione per i mesi in cui, dopo l’operazione Kelevra, a Maniaci viene imposto il divieto di dimora nelle province di Palermo e di Trapani.
Cessato il quale, comunque, il loro rapporto sembra tornare quello di sempre. «Quando mi vedeva mi diceva sempre “tu sei un vero sbirro, un vero carabiniere”, perché avevo un’abitudine quando notavo qualcosa di strano: relazionavo, scrivevo, annotavo, facevo foto». Uno, insomma, che se è il caso fa domande, senza voltarsi dall’altra parte se qualcosa non lo convince. Quando prende servizio per la prima volta a Partinico nel settembre del 2008, Liberti trova già la vigilanza attiva nei confronti del giornalista, «mi pare che lo avessero minacciato, che già gli avessero bruciato due macchine. Ne hanno bruciata anche una terza – racconta -, una Bmw parcheggiata in contrada Turrisi, sotto la redazione, ma io quel giorno non era di turno. Il comandante, però, ci disse solo di prestare più attenzione». Liberti è di turno, invece, quando qualche anno dopo accade un altro inquietante episodio a danno di Maniaci.
«Il 3 dicembre 2014 ha trovato i suoi due cani impiccati: la femmina era attaccata nella parte superiore del palo con del filo zincato, il maschio era attaccato un poco più su dal collo sempre al palo con lo stesso filo, e poi con un filo di antenna erano tenuti sollevati, non c’era un vero e proprio cappio, erano stati appesi dopo essere stati uccisi. A terra c’erano un rastrello, una scopa e un bastone di gomma lungo un paio di metri, e la ciotola piena di pasta portata il giorno prima da una delle sue figlie – racconta ancora -. Ho avvisato la centrale operativa, però continuava a non arrivare nessuno, allora lui è andato in caserma a fare denuncia. Era arrabbiatissimo, ha cominciato a piangere insieme alle figlie quando ha visto i cani. Urlava e piangeva». Il brigadiere ricorda anche il racconto di alcuni colleghi circa una sorta di aggressione ai danni del giornalista, avvenuta anni prima del suo arrivo alla caserma di Partinico: Maniaci sarebbe stato fermato per strada da un uomo vicino alla criminalità locale che lo voleva strozzare con la cravatta.
Si arriva, infine, al 4 maggio 2016, il giorno in cui viene messa a segno l’operazione Kelevra, coi relativi arresti di alcuni presunti esponenti mafiosi di Partinico e dintorni. Nel vortice di quel blitz finisce, com’è noto, anche Pino Maniaci. «Quel giorno sono andato in caserma e i colleghi mi hanno raccontato cosa era successo, sono rimasto stupefatto. Giorni dopo si cominciava a vociferare che io ero stato intercettato, che io facevo parte di questa operazione. A giugno l’allora capitano De Chirico mi ha notificato un inizio di procedimento disciplinare perché ero stato intercettato mentre parlavo con Maniaci mentre gli riferivo delle notizie – racconta Liberti -. Ma non erano vere e proprie informazioni, per dire: succedeva magari un incidente stradale e lui subito mi chiamava e mi chiedeva se c’erano feriti e altro, e io magari gli dicevo “sì, tre feriti” oppure “sì, uno gravissimo in prognosi riservata”, ma non era vero, era solo per zittirlo. Chiamava, mi assillava. Parliamo di intercettazioni che sono state al vaglio della Procura, ma che non le ha trovate rilevanti dal punto di vista penale. Lo stesso provvedimento è stato notificato a tanti altri colleghi del nucleo radiomobile. Tutto concluso con un richiamo e un rimprovero. Il trasferimento a Carini comunque l’ho chiesto io, ero stanco e volevo cambiare, tutto qui».
A ricordare quel 4 maggio di oltre tre anni fa e, ancor di più, i giorni successivi, c’è anche Salvatore Vitale, storico amico e collaboratore di Peppino Impastato, vicino al militante ucciso nel ’78 nel suo ultimo decennio di attività politica e cofondatore della famosa Radio Aut a Terrasini, dalla quale insieme attaccavano, con ironia, sagacia e intelligenza, i boss di Cosa nostra. «Dopo l’operazione Kelevra, si è creato una sorta di vuoto attorno a Telejato, un momento che inizia proprio in quelle giornate – spiega -. Prima la televisione era un punto di incontro per le scolaresche dei territori vicini, i ragazzi venivano a fare degli stage di giornalismo, Maniaci metteva loro in mano la telecamera e gli insegnava cosa fosse il mestiere sul campo. Ma dopo è sparito tutto, è rimasta solo la conduzione famigliare e qualche sporadico collaboratore». Tra questi c’è anche lui, docente di storia e filosofia in pensione con la passione del giornalismo. I suoi temi, da sempre, sono quelli che riguardano l’antimafia, le cosche nella provincia di Palermo e le misure di prevenzione.
Conosce Maniaci a Cinisi intorno al Duemila, in occasione di alcune manifestazioni in ricordo di Impastato. Di lì a poco prende il via il loro rapporto professionale. «La caratteristica per cui ho lavorato a Telejato era la sua impostazione antimafia, che io stesso ho cercato di portare avanti anche col mio contributo – spiega -. E poi la sua attività di costante denuncia delle irregolarità presenti sul territorio». Da tutto ciò nasce una collaborazione episodica, che si intensifica proprio dopo quel blitz: «Dopo che è scoppiato il suo caso processuale e dopo aver visto come si fosse squagliato tutto quello che era stato costruito in tanti anni da questa emittente, è stato il mio modo di non lasciarlo solo. Nel tempo non ho mai avuto impressioni di morbidezza, conoscendo il tipo, e se avessi avuto sospetti di cambi di linea o di acquiescenza credo che avrei cambiato emittente, a me risulta che Pino Maniaci e Telejato siano stati sempre coerenti».