Caso Fragalà, i sospetti sul reuccio di Porta Nuova «Possono emergere elementi per chiudere il cerchio»

«Capace che se fanno una retata si portano pure a lui… Perché lui che è recidivo stavolta lo fanno morire là dentro… Va bè che ogni giorno che è fuori deve baciare i coglioni con l’ergastolo di sopra…». Scherza Rubens D’Agostino, colpito anche lui insieme a una trentina di persone dal blitz antimafia di ieri. Scherza per sdrammatizzare. Con l’arresto di Tommaso Di Gregorio, accusato di essere stato per anni a capo del mandamento di Porta Nuova, sarebbe infatti subentrato il cugino Gregorio Di Giovanni, uscito dalla galera l’estate scorsa e arrestato nel giro di pochi mesi con l’operazione di dicembre Cupola 2.0. una scelta pericolosa, quella di porlo nuovamente al vertice, visto il sicuro monitoraggio da parte delle forze dell’ordine «per il suo coinvolgimento nell’omicidio dell’avvocato Vincenzo Fragalà». Un coinvolgimento rispetto al quale, a sentire le intercettazioni degli uomini d’onore, si alluderebbe quasi con disinvoltura negli ambienti di Cosa nostra. Tuttavia, tra i sei imputati nel processo attualmente in corso per il delitto, davanti ai giudici della prima corte d’assise, il nome di Gregorio Di Giovanni non c’è. «Immagino che possano emergere nuovi elementi da queste nuove operazioni. Penso che tutto questo sia stato fatto anche per chiudere il cerchio sull’omicidio di mio padre», osserva intanto Marzia Fragalà, figlia dell’avvocato, fiduciosa che gli scenari su quanto accaduto la sera del 23 febbraio 2010 possano a breve ampliarsi.

Ma tra gli arrestati di ieri c’è un altro nome altrettanto conosciuto. È quello di Francesco Arcuri, già in carcere dal 2017 per l’omicidio Fragalà e attualmente sotto processo. Sono molti i collaboratori di giustizia che nel tempo hanno parlato di lui, descrivendolo come «quello che comandava e il braccio destro di Gregorio Di Giovanni». Il pentito Danilo Gravagna racconta nel 2015 di aver seguito la storia solo sui giornali e di non sapere nulla di più: «Io del nome conosco Arcuri quello che è stato… Lo conosco come fama, non come persona. Nel mandamento di Porta Nuova l’ho sentito, ne ho sentito parlare più di una volta». Anche se nel 2015 avrebbe riferito ai magistrati alcuni dettagli finora inediti sull’omicidio Fragalà, tirando in ballo proprio il reuccio di Porta Nuova. «Dice che suo cugino Gregorio Di Giovanni gli ha fatto sapere che quella sera doveva chiudere prima», riferisce, raccontando una confidenza fatta da un cugino dei fratelli Tommaso e Gregorio Di Giovanni rispetto all’agenzia davanti cui fu aggredito l’avvocato. Tirando di fatto in ballo proprio quello stesso reuccio che per il pentito Francesco Chiarello sarebbe il mandante del delitto Fragalà.

«E poi, mi ha pure detto che, mi ha fatto capire, non me l’ha detto esplicitamente…che non dovevano ucciderlo questo avvocato. Non era un…diciamo, una spedizione per ucciderlo, ma solo per punirlo…Lo dovevano punire, ecco. E se forse, io deduco da quello che mi ha detto lui, che questo avvocato forse s’intrometteva in discorsi che non gli…che non gli appartenevano». Dichiarazioni finite di recente anche nelle carte dell’ultima imponente operazione antimafia, Cupola 2.0, che a dicembre scorso ha colpito i principali mandamenti di Palermo e provincia. Ma che ancora non sono entrate, di fatto, all’interno del processo in corso in corte d’assise. E nessuno, fino ad oggi, sembra avere intenzione di vederci chiaro rispetto a questi nuovi dettagli. E poi c’è, appunto, Chiarello, il pentito che con le sue dichiarazioni ha permesso di dare uno scossone alle indagini sul delitto Fragalà e di giungere al processo che si sta celebrando a Palermo. «Francesco Arcuri è il ragazzo che è venuto a casa mia lo stesso giorno che hanno fatto il pestaggio, che ha parlato con Salvatore Ingrassia (anche lui sotto processo per l’omicidio del penalista…ndr): ci servivano quattro persone, ca c’aviano a dare quattru colpi i ligna a questo, però “senza toccargli soldi e né oggetti, perché deve capire che deve parlare poco”, così diceva – racconta, anche lui nel 2015 -. Questo ragazzo è il braccio destro di Gregorio Di Giovanni, si occupava di tutte cose lui».

Più recente, invece, il racconto riferito ai magistrati dal pluripregiudicato Fabio Fernandez, sentito dai magistrati nei primi mesi del 2018. «Arcuri è un ragazzo del mio quartiere – dice subito -. Lo conosco da tempo, sono stato anche suo testimone quando si è sposato in municipio». Una conoscenza che dura da tempo, sembrerebbe. Ma lui, la sera dell’agguato all’avvocato Fragalà è in carcere. «Non so niente di questo delitto», dice infatti. Tuttavia il suo racconto restituisce un’immagine precisa di uno degli uomini che oggi di fatto devono rispondere di questo omicidio. «È una persona che nel mio quartiere comandava, lui comandava tutto – dice -. Io lo conosco da ragazzo che era una persona molto aggressiva, molto forte, anche fisicamente, uno di quelli che se ti dovevano mandare all’ospedale non ci pensava due volte. Però da quando è uscito ho visto che era diventato molto più… – fa una pausa, poi riprende -, lui parlava solo con i capi famiglia e poi i ragazzi venivano da noi e ci dicevano quello che dovevamo fare». Sono racconti, i suoi, che farebbero non solo emergere, a detta dei magistrati, la comprovata appartenenza di Arcuri al mandamento mafioso di Porta Nuova, all’interno del quale sembra abbia goduto di posizioni di rilievo, ma che uscito dal carcere finito di scontare una condanna per 416 bis non abbia avuto remore sul riprendere le vecchie relazioni e i vecchi affari dell’organizzazione criminale.

«Ciccio Arcuri, fra le altre cose era tutto il giorno lì, con la moto, avanti e indietro, dico si capiva che apparteneva a loro, però essendo che non mi era stato presentato, io ero uno che cercava di conoscere meno gente possibile, dico non mi interessò,però è un nome che Arcuri è molto conosciuto nelle zone di Porta Nuova», riferisce anche Sergio Macaluso, ascoltato a marzo del 2018. Un alto che ha conosciuto prima la sua fama, in qualche modo. Non si può dire lo stesso di Salvatore Bonomolo, che invece lo conosce da almeno dieci anni: «Quando ci stavo io non era nemmeno combinato – dice ai magistrati -. Si interessò a lui Peppino Dainotti, ricordo che mi chiese che tipo era, mentre eravamo detenuto insieme a Sulmona. Io andavo in giro con lui», anche se della sera del 23 febbraio di nove anni fa, anche lui, sembra non avere nulla da dire. Tranne quello che ha saputo da un compagno di cella, Giuseppe Auteri (indagato per l’omicidio e poi prosciolto), e che ha poi riferito al processo in corso: «Mi disse che era stato per fare un favore a quelli di là sopra, quelli di Pagliarelli. Auteri e Arcuri si curavano l’avvocato».


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