«Disprezzo per la mafia e i suoi sostenitori». Un testo mai stampato su La Sicilia pare per volere del direttore, per cui adesso è stato chiesto il rinvio a giudizio per concorso esterno alla mafia. I parenti del commissario ucciso da Cosa nostra annunciano la richiesta di costituzione di parte civile nell'eventuale procedimento a suo carico
Caso Ciancio, fratelli Montana persona offesa Per il necrologio di Beppe che non fu pubblicato
È il 1985, sono passati tre mesi dall’uccisione, a colpi di pistola, di Beppe Montana. È in quei giorni che il padre del commissario di polizia chiede al quotidiano etneo La Sicilia di pubblicare un necrologio. Poche parole, in cui la famiglia rinnova «ogni disprezzo alla mafia e ai suoi anonimi sostenitori». Quel messaggio, però, non vede mai la luce sulle pagine del più diffuso giornale catanese. A mancare sarebbe stata l’autorizzazione dell’editore e direttore Mario Ciancio Sanfilippo. È questo uno dei motivi per i quali Dario e Gerlando Montana, fratelli del poliziotto della catturandi di Palermo, chiederanno di costituirsi parte civile nel processo a carico di Ciancio, per il quale lo scorso 1 aprile è stato chiesto il rinvio a giudizio. L’accusa è quella di concorso esterno in associazione mafiosa.
Secondo i giudici che hanno rifiutato una prima richiesta di archiviazione presentata dalla procura, avrebbe «straordinaria pregnanza indiziaria» il contributo che Ciancio sarebbe stato in grado di offrire a Cosa nostra in qualità di editore e direttore dell’unico quotidiano etneo. I contenuti proprio di quella ordinanza sono confluiti nelle motivazioni con le quali i fratelli Montana sostengono di essere persone offese e annunciano di richiedere di costituirsi parte civile nell’eventuale processo a Ciancio. E nominano l’avvocato Goffredo D’Antona loro difensore. «Nell’ordinanza — scrivono Dario e Gerlando Montana — si fa riferimento ai commenti che gettavano discredito sulla procura di Palermo e all’intervista effettuata allo stesso Benedetto Santapaola nell’anno 1994. Tali elementi, a parere del giudice, venivano inoltre “rafforzati se si considera ulteriormente il deprecabile episodio accaduto ai parenti della vittima di mafia Beppe Montana”».
Il rifiuto «ingiustificato e ingiustificabile», secondo i familiari, della pubblicazione del necrologio di una vittima di mafia avrebbe aumentato nei parenti del commissario ucciso «quel senso di sconforto e solitudine». E sarebbe apparso, inoltre, «non come un semplice e mero silenzio». Secondo la famiglia Montana, quel no detto da Ciancio avrebbe avuto «la valenza di voler trattare la commemorazione della morte di una vittima di mafia come fatto non importante, trascurabile, quasi come a non voler ricordare alla città di Catania e ai catanesi che c’era chi si era impegnato e si impegnava nella lotta alla criminalità mafiosa e che per mano della stessa veniva brutalmente ucciso».
A questo si aggiungerebbe l’intervista a Benedetto Santapaola pubblicata nel 1994. Il boss di Cosa nostra considerato il mandante dell’omicidio del giornalista Pippo Fava e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. In questo stesso contesto andrebbe letta la pubblicazione integrale e senza alcun commento, avvenuta nel 2008, della lettera del figlio di Nitto, Vincenzo Santapaola, detenuto al 41bis, che lamentava di essere accusato di alcuni reati solo a causa del suo cognome.
«Evidentemente, la pubblicazione di quel necrologio non poteva trovare spazio all’interno di quel giornale. E il rifiuto non si può spiegare se non attraverso il fatto che sussistono numerosi elementi che inducono a ritenere che Ciancio Sanfilippo contribuiva all’associazione mafiosa anche nella sua qualità di direttore del giornale, così come rilevato dal giudice per le indagini preliminari», affermano Dario e Gerlando Montana. Che continuano: «Se un importante mezzo di stampa si oppone in tal modo alla pubblicazione di un necrologio di una vittima della mafia, diventa assolutamente palpabile il senso di isolamento e una volontà, seppur astratta ed inespressa, da parte della società civile di volersi allontanare solo perché un proprio caro si è operato, facendo il proprio dovere, per fermare la criminalità mafiosa».
Il caso del necrologio negato, si legge nella richiesta al giudice, non avrebbe fatto altro che generare «l’idea e il pensiero» che Cosa nostra a Catania fosse «sicura di poter fare affidamento anche sul maggior mezzo di informazione cartaceo a larghissima diffusione nella città».