Dopo il rimpallo fra procura generale e procura della Repubblica, il legale è convinto che ci siano i presupposti per il rinvio a giudizio dei tre indagati. E a proposito della gestione del processo trattativa non teme influenze negative: «Le valutazioni su Massimo Ciancimino non c’entrano niente con questo caso»
Caso Agostino, richiesta l’avocazione Repici: «Il processo si fa ora o mai più»
«Il papà di Nino Agostino tra poco compie 80 anni. Sarebbe una bestemmia impedirgli di vedere il processo prima di morire». Questo, fra i tanti, il motivo principale per cui Fabio Repici, legale della famiglia Agostino, ha recentemente fatto richiesta di avocazione delle indagini. Sono passati 27 anni da quel 5 agosto 1989 in cui, intorno alle 19.40, perdevano la vita in un agguato forse di stampo mafioso l’agente Nino Agostino, membro anche del Sisde, e la moglie Ida Castelluccio, sposata appena un mese prima e al quinto mese di gravidanza. Stavano per entrare nella villetta di famiglia a Villagrazia di Carini per festeggiare i 18 anni della sorella di lui, quando due uomini a bordo di una motocicletta li hanno uccisi a colpi di pistola. «Originariamente, scaduti i termini delle indagini preliminari del procedimento riaperto nel 2011, c’era stata una richiesta di archiviazione da parte della procura di Palermo», spiega a MeridioNews Repici. A quella richiesta, però, lui e la famiglia Agostino si oppongono, trovando supporto nella decisione della gip Maria Pino, che nel giugno 2015 respinge la richiesta della procura e ordina ulteriori indagini. Per le quali fissa anche un tempo: sei mesi.
È a questo punto che il fascicolo del caso Agostino torna in procura. La stessa procura generale che il 7 luglio 2015 emana un primo decreto di avocazione richiesto dal procuratore generale della Corte d’appello Roberto Scarpinato. La procura della Repubblica, però, presenta un reclamo in Cassazione che revoca la richiesta mossa da Scarpinato. La palla passa, dunque, dalle mani della procura generale prima a quelle della procura della Repubblica dopo, che reclama e avoca a sé la responsabilità del caso Agostino. «I presupposti a quel punto – riprende a dire l’avvocato – erano che la procura riteneva che il fascicolo fosse meritevole di intervento e che si potesse arrivare a celebrare il processo». Nel frattempo, vengono sentiti in incidente probatorio i pentiti Vito Lo Forte e Vito Galatolo, «che avevano reso dichiarazioni che fra di loro si riscontravano in modo perfetto», precisa Repici. Le loro deposizioni si aggiungono quindi al fascicolo relativo agli originari indagati: Gaetano Scotto, boss dell’Acquasanta sospettato di essere stato un tramite fra la mafia e i servizi segreti, Antonino Madonia, appartenente alla famiglia mafiosa di Resuttana, e Giovanni Aiello, l’ex poliziotto soprannominato faccia da mostro, a causa di un colpo di fucile che gli ha sfregiato il volto.
È proprio sulla base di questo fascicolo riunito che Vincenzo Agostino, padre dell’agente ucciso, viene sottoposto a febbraio alla cosiddetta ricognizione di persona: un confronto all’americana nell’aula bunker dell’Ucciardone durante il quale riconosce «Giovanni Aiello in una delle due persone che qualche settimana prima dell’omicidio era andata a Villagrazia di Carini a cercare il figlio», spiega il legale. Che continua: «Abbiamo atteso la scadenza del termine delle indagini preliminari pensando che a breve ci sarebbe stato l’avviso di conclusione. Non è arrivato – dice Repici – Nella seconda metà di ottobre ho quindi depositato una memoria, in cui segnalo come le risultanze del fascicolo impongono che si celebri il processo: o si fa ora o non si farà mai più, perché gli indagati cominciano ad avere una certa età, si rischia davvero di non poterlo fare per consunzione naturale». Il legale è convinto che ci siano i presupposti per la cosiddetta avocazione obbligatoria: affinché cioè la procura generale tolga il caso dalle mani della procura della Repubblica. Se questa dovesse venire accolta, potrebbero anche svolgersi ulteriori indagini.
I pm coinvolti nel caso Agostino sono Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, gli stessi magistrati impegnati nel processo sulla presunta trattativa fra Stato e mafia. Processo durante il quale Massimo Ciancimino, figlio di Don Vito, ha più volte fatto riferimento a faccia da mostro, parlandone come un amico del signor Franco, un colonnello ritenuto il tramite fra le istituzioni e Cosa nostra, del quale però non è stato finora possibile scoprire l’identità, né tanto meno la reale esistenza. Senza contare che lo stesso Ciancimino junior è stato più volte definito un test poco attendibile. L’ultima, in ordine cronologico, è stata la gup Marina Petruzzella, che nelle motivazioni dell’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino ne sottolinea l’«assenza di coerenza e la strumentalità del comportamento processuale». Ma Repici non si scompone e non teme che si abbattano sul caso Agostino influenze negative provenienti dalla gestione del processo trattativa. «Le valutazioni su Massimo Ciancimino non c’entrano niente con questo caso. Non mi interessa sapere se è una persona buona o cattiva – dice il legale – Da giurista devo valutare le fonti di prova sulla base di criteri giuridici e non moralistici». Nel fascicolo sulla morte dell’agente, in ogni caso, non esistono dichiarazioni del figlio dell’ex sindaco di Palermo condannato per mafia. «Le prove vanno valutate per quelle che sono – conclude Repici – I magistrati non hanno l’obbligo di mettere le carte a posto, ma di esercitare l’azione penale».