Caro Celli, sono depressa

Davanti alla porta del teatro nessuno gli presta attenzione. Sta là, osserva la pioggia di Perugia e aspetta il suo turno. Ti dici: «Ma io a questo qui l’ho visto da qualche parte». Fermi un collega, e gli chiedi conferma. Lui ti guarda come fossi un’aliena. «Quello? È Pierluigi Celli!».

Pierluigi Celli… Fai mente locale e ti ricordi che Pierluigi Celli è quello della lettera a Repubblica, il direttore della Luiss di Roma. Sì, l’uomo che, accoratamente, ha scritto: «Figlio mio, lascia questo Paese». Perché in Italia «nessuno sembra destinato a pagare per gli errori fatti» e perché la nostra è una società «divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l’affiliazione, politica, di clan, familistica».

Quel Pierluigi Celli. Io, dopo aver letto quella lettera, mi sono chiesta perché faccio quello che faccio, perché mi ostino a pensare che questo Paese abbia ancora molto da dare, perché continuo ad arrabbiarmi e a credere che il miglioramento parta dalle mie azioni.

Così mi sono avvicinata, a quel Celli là.

«Ma lei lo sa che io, dopo aver letto ciò che ha scritto a suo figlio, mi sono depressa tantissimo?», gli ho chiesto, senza neanche presentarmi.

Lui s’è tolto dalla bocca il sigaro, m’ha sorriso e ha risposto: «E perché mai? Io mica volevo che qualcuno si deprimesse. La mia era una provocazione, volevo puntare l’attenzione su qualcosa di cui non si discuteva molto».

Pierluigi Celli ha un figlio, ormai quasi laureato. «È un ragazzo in gamba, lui. La sua tesi è su un argomento che in Italia non è che sia granché trattato, una cosa d’ingegneria meccanica. Non sapeva con chi farla, ha preso il suo curriculum e l’ha inviato ad un college inglese: gli hanno risposto in pochissimo tempo, scrivendogli che sì, poteva andare, e proponendogli una serie di altri corsi, qualora avesse deciso di fermarsi anche oltre la laurea. E non solo, gli hanno dato una stanza, completamente gratis: avrebbe dovuto pagare cento sterline al mese solo se avesse voluto il lusso del bagno in camera».

Il lusso del bagno in camera. In Italia è un lusso se nelle università c’è un bagno. La carta igienica, poi, sembra quasi un miraggio.

«Bisogna vedere quello che c’è all’estero per capire quello che ci potrebbe essere in Italia». Il rischio che rendendosi conto delle possibilità che ci sono fuori dal bel Paese sia poi impossibile ritornare sembra non essere nemmeno da prendere in considerazione.

«Il figlio di un mio amico è andato a studiare in Svezia. S’è laureato e ha pensato che sarebbe stato bello tornare in Italia. Ha mandato per email un curriculum a Finmeccanica e ha aspettato per tre mesi che gli rispondessero. Poi s’è stancato, e ha mandato il medesimo curriculum a due aziende inglesi. Sapete quanto ci hanno messo a rispondere? Cinque giorni. Gli hanno detto che gli avrebbero pagato il viaggio e gli hanno fatto un colloquio immediatamente. Lì sì, qui no. Che ci vuole a rispondere ad un’email?».

In effetti, davvero, che ci vuole a rispondere ad un’email? Se ne invio una ad un professore all’università per chiedere semplicemente quand’è il suo orario di ricevimento, mi risponde dopo tre mesi, se mi risponde.

Ha ragione Celli: bisogna vedere quello che c’è all’estero per capire quello che ci potrebbe essere in Italia. Ma perché non è già così, in Italia? «Politiche sbagliate».

Per sapere questo, però, non è necessario essere direttore della Luiss.


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