Carmelo Salanitro: adranita morto nelle camere a gas «Di lui non era rimasto nulla ma continuava a lottare»

Vittime della storia, inghiottiti dall’Olocausto, la barbarie nazifascista travolse anche gli abitanti alle pendici dell’Etna. Nella giornata della memoria in cui si ricorda il sacrificio di milioni di innocenti per mano dei nazifascisti, il noto liceo classico Mario Cutelli di Catania ha deciso di rendere omaggio a Carmelo Salanitro, affiancando il nome del latinista Cutelli a quello del docente di Adernò – odierna Adrano – morto nel campo di concentramento austriaco di Mauthausen nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1945. Salanitro, nato il 30 ottobre del 1894 nella cittadina in provincia di Catania, era appassionato delle lettere, di Latino e Greco. Diplomato al liceo classico Gulli e Pennisi di Acireale, si laurea in Lettere classiche per poi andare a insegnare a Caltagirone, nella sua Adrano, passando per Acireale e infine al liceo classico Cutelli di Catania. 

Di profonda fede cattolica, Salanitro aderisce al Partito popolare di don Luigi Sturzo. Lo studio si affianca all’impegno politico, un attivismo all’insegna dei valori pacifisti e dell’antifascismo che Salanitro cerca di tramandare anche ai suoi studenti, in barba anche al pericolo di essere scoperto. Siamo nel 1929, nel cuore del ventennio fascista, e il docente non smette di mostrare la sua vicinanza a studenti, operai ed emarginati. Ai suoi alunni mette dei bigliettini contro la guerra e il fascismo all’interno dei cappotti, sotto i banchi o nella buca delle lettere. «Il fascismo ha scatenato una guerra criminale dove i nostri fratelli trovano la morte», «viva gli inglesi e i belgi che si oppongono al fascismo» e ancora «il fascismo è il vero nemico» erano soltanto alcuni dei messaggi contenuti nei bigliettini. Al liceo Cutelli trovò un preside «fascista accanito», come raccontato in un audio della nuora di Salanitro, Maria Salanitro Scavuzzo, trasmesso durante la trasmissione Direttora D’aria su Radio Fantastica. «Quando fu arrestato aveva in mano uno dei suoi bigliettini – racconta – Ogni insegnante doveva avere la tessera del partito, ma mio suocero non la prese mai: secondo il preside era testardo e pericoloso, per questo lo fece arrestare». Maria Salanitro Scavuzzo è la moglie di Niccolò, figlio di Salanitro. Insieme hanno cercato di fare rivivere la testimonianza di quell’uomo che dalle pendici dell’Etna scontò la sua prigionia semplicemente perché si era opposto alla barbarie fascista. Conobbe le carceri di Civitavecchia, nel Lazio, poi quelle di Sulmona, in Abruzzo. 

Dopo l’armistizio, viene consegnato dai suoi connazionali ai tedeschi che, prima di farlo morire, lo portano nel campo di concentramento di Dachau e poi a Mauthausen, dove finì i suoi giorni. «Ai compagni di prigionia diceva che uno dei suoi desideri era dare una lezione in classe al preside su cosa fossero davvero l’onore e la viltà». Mai un desiderio di vendetta: a guidare Salanitro furono sempre la fede in Dio e il suo essere contro la violenza. E gli ideali di Salanitro non smisero di vivere nemmeno tra la sofferenza, all’interno dei campi di concentramento. A raccontarlo è stato anche Nunzio Di Francesco, anche lui nato alle pendici dell’Etna, il cui destino si intreccia a quello di Salanitro nel campo di Mauthausen, dove furono entrambi prigionieri. 

Di Francesco, militare originario di Linguaglossa, si unisce alla resistenza arruolandosi nella quarta brigata Garibaldi. Sarà conosciuto come il comandante Atos. Morto nel 2011 a 87 anni, in un audio racconta il momento in cui incontrò il suo conterraneo. A differenza di Salanitro lui da quel campo uscì vivo insieme ad altri 47 prigionieri politici. «Dopo 20 giorni a subire le legnate dai nazisti mi misero davanti a un medico, il quale mi disse che lì c’era un mio conterraneo – ricostruisce Di Francesco in un audio pochi mesi prima della sua morte – Era Salanitro: nudo, col viso screpolato. Lui portava gli occhiali, ma glieli avevano tolti. Gli chiesi perché si trovava lì. Lui disse: “Educavo i miei studenti. Forse il mio preside in cambio di duemila lire di premio mi ha fatto condannare”». Di Francesco, che ha deciso di raccontare negli anni seguenti quella drammatica esperienza, ricorda il suo compagno di prigionia: «Di Salanitro non c’era più nemmeno il corpo, ma continuava a lottare – dice – Lo consideravano pericoloso. Io ero rassegnato a morire. Alla fine sono stato liberato, lui trovò la morte nelle camere a gas. Ho tenuto sempre vivo il suo ricordo».


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