Manuela lavora da anni a contatto con le 150 persone che lo abitano. Racconta che quando hanno occupato le case allo Zen sono stati cacciati dagli stessi palermitani. Da lì la decisione di spostarli. Una scelta fatta in emergenza nel 1991, che doveva essere temporanea e che invece si è cristallizzata in venti anni di degrado
Campo rom, tra pregiudizi e voglia di cambiare vita Operatrice: «È ghetto, l’unica soluzione è chiuderlo»
Non sono molte le persone a Palermo che hanno un buon rapporto con la comunità rom che da vent’anni ormai vive nel campo ai margini del Parco della Favorita. Disagi, degrado e pregiudizi sono alcune delle cause che hanno generato questo tipo di ostilità nel corso degli anni. La condizione in cui versa il luogo dove vivono queste comunità crea disagi ai palermitani, ma allo stesso tempo non lascia alla gente che lo abita la possibilità di condurre un’esistenza degna di questo nome. Lo sostiene con forza Manuela Casamento, prima volontaria e poi, fino a fine novembre 2016, operatrice campo per il Comune nell’ambito del progetto per l’inclusione dei bambini rom Sinti e Caminanti del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.
«Tante sono le cose che i palermitani non sanno -spiega – il campo non è stato occupato dai Rom ma sono stati messi là, nel 1991, dal sindaco di allora, Domenico Lo Vasco. Prima di vivere qui, si trovavano allo Zen e abitavano delle case che avevano occupato. Ma i palermitani non li volevano e nel settembre del 1991 si sono verificati dei disordini». Vista la situazione «l’amministrazione di allora ha trovato l’unico spazio possibile, dove non c’erano attorno altri palazzi e li hanno messi là». Una soluzione d’emergenza «che doveva essere temporanea ma che continua a rimanere la stessa da venti anni». Per chi vive nel campo la situazione igienico-sanitaria è al limite: «Non hanno l’allaccio di acqua corrente. Non si possono fare i lavori perché l’area ricade nella riserva naturale. Non ci sono bagni, alcuni hanno fatto un buco nel terreno. Non ci sono docce. Non c’è niente. L’acqua viene portata con le autobotti». Nonostante il degrado e le privazioni in questi anni istituzioni e volontari hanno offerto il loro contributo. Attorno al campo ruota una una rete di persone che vivono a contatto con queste famiglie: «C’è chi si occupa di dispersione scolastica, ci sono assistenti sociali che si assicurano che tutti i rom vadano a scuola. C’è chi frequenta anche le superiori».
Manuela è una delle due operatrici che negli ultimi anni sono state a stretto contatto con i rom di Palermo, un ventina di nuclei familiari: «Conosco queste famiglie ormai da anni. Sono quasi tutti iscritti alle liste per l’emergenza abitativa. Desiderano una casa e un lavoro. Tutti. Il problema principale al campo sono i documenti. Siccome non sono europei perché provengono dalla ex Jugoslavia – sono kosovari e serbi – hanno bisogno del permesso di soggiorno. Siccome molti, quando sono scappati a causa della guerra hanno perso i documenti, adesso si ritrovano ad essere di fatto apolidi perché non risultano più iscritti nei registri del loro Paese. Questo crea diversi problemi per il permesso di soggiorno». Alcuni di loro, racconta l’operatrice, magari riescono ad avere i documenti attraverso il marito o la moglie, e riescono a regolarizzarsi. Per quelli che non ce la fanno «è come vivere in un limbo». Il circolo è vizioso: se non hai documenti è difficile ottenere lavoro – se non in nero – e chi non lavora «non può avere nemmeno una casa». In questi ultimi cinque anni, spiega Manuela, sono andati a vivere in un’abitazione popolare quattro o cinque famiglie. «La prima che l’ha ottenuta era iscritta nelle liste nella graduatoria da dieci anni».
«Due anni fa abbiamo portato avanti il progetto D.J. – Diversity on the Job – che dava la possibilità a quindici persone rom di fare un tirocinio retribuito per tre mesi. Lo hanno portato avanti dall’inizio alla fine – afferma ancora l’operatrice – non mancando mai. Alcuni volevano anche assumerli alla fine anche se molti non hanno potuto farlo sempre per via del permesso di soggiorno». I datori di lavoro interessati sono rimasti in contatto e li chiamano ancora come aiuto cuoco o parrucchiera. «Hanno dimostrato che non è vero che non vogliono lavorare. In quei tre mesi nessuno è andato a chiedere l’elemosina. Gli unici lavori che riescono ad ottenere sono in nero». C’è chi raccoglie il ferro, chi va ad aiutare una signora anziana, chi fa le pulizie. Qualcuno è anche riuscito a fare da mediatore culturale all’Ars. «Ci sono dei palermitani che hanno più fiducia e non pensano che i rom siano tutti ladri, così queste persone riescono in qualche modo a lavorare. Anche se capita solo due volte a settimana, già per loro non è male. Sono molti quelli che cercano di fare una vita diversa».
Per l’operatrice però l’unica soluzione alle problematiche di queste comunità «è quella di chiudere il campo. E non aprirne altri. Perché il campo è un ghetto. Ci sono palermitani che dopo venti anni non sanno nemmeno dove è. Siamo forse solo in due ad entrare qui tranne qualche palermitano che conosce le famiglie e le viene a trovare». Manuela spiega che «si tratta di 150 persone in tutto, compresi i minori, bisogna trovare dove metterli. Lo capisco, è una guerra tra poveri. Si dovrebbero trovare delle soluzioni abitative che possano andare bene sia per i rom che per i palermitani. La situazione è disperata un po’ per tutti».