Camminare a Librino e sentirsi allo Zen «Bisogna ricostruire a dimensione umana»

C’era una volta un palazzo di cemento. Che si tratti di Librino o dello Zen, l’inizio della storia è sempre lo stesso. Grandi costruzioni diventate cattedrali del degrado in un deserto chiamato periferia. Non è un caso che le strutture si somiglino molto anche esteticamente, con le loro scale all’aperto, gli schemi di finestre prese d’aria che si ripetono, gli spazi comuni. Sono canoni ben precisi di uno stile, una sorta di utopia costruttiva, che ha lasciato segni del genere in diverse regioni. 

«Sono tutti uguali in tutta Italia, senza distinzioni tra Nord e Sud. È tutto uniformato, in male, ma uniformato». A dirlo è Ettore Maria Mazzola, professore di Architettura urbanistica all’università di Notre Dame, negli Stati Uniti, che si è occupato più volte in carriera del tema delle periferie, ricevendo anche premi internazionali per un progetto di riqualificazione che prendeva come modello proprio l’area dello Zen di Palermo, oltre che il Corviale di Roma. «L’ideologia che c’è dietro lo Zen e dietro le costruzioni di quegli anni – spiega – voleva che quel tipo di architettura dovesse tradurre in urbanistica l’ideale della nuova Gerusalemme, la città della giustizia e dell’equità assoluta, libera da qualsiasi distinzione di classe sociale». 

Un’idea che prese forma negli anni ’60, proprio quando vennero progettati Librino e lo Zen. «Si pensava che il centro storico dovesse essere abbandonato alla borghesia – prosegue Mazzola – Si è iniziato così a costruire in maniera assolutamente folle quartieri senza alcun carattere, senza alcuna funzione aggiuntiva rispetto a quella residenziale. Raramente ci sono negozi o attività, perché si doveva progettare secondo i canoni dell’architettura che aveva teorizzato Le Corbusier, bisognava zonizzare la città». E con il dopoguerra e la ricostruzione arrivarono anche i nuovi piani regolatori. «Sono basati su una legge fascista che istiga alla separazione delle funzioni – spiega l’architetto – Le nostre città sono così grandi proprio per questa imposizione di determinate distanze che prima non c’erano».

La visione dell’edilizia liberale che ha portato alla costruzione di periferie come Zen e Librino è partita dagli Stati Uniti, dove i padri del modernismo nell’architettura erano fuggiti per scampare alla guerra. Mentre, tuttavia, in Italia, il 20 luglio del ’72 venne concepito il Corviale di Roma, un altro palazzone che ricorda tanto lo Zen, quanto il palazzo di cemento di Librino. Appena cinque giorni prima, a San Louis, negli Stati Uniti, era stato demolito un quartiere praticamente identico perché considerato deleterio per la sua cittadinanza a basso reddito. «Loro stavano abbandonando quei modelli e noi avevamo appena iniziato a sposarli».

Secondo il professore romano esistono altri modelli virtuosi a cui potersi ispirare. «In Francia – racconta – dal 2005 al 2012 sono stati investiti 60 miliardi di euro per buttare giù le periferie degradate e creare quartieri a dimensione umana. Per Librino e lo Zen non ci sono soluzioni diverse, semplicemente perché sono costruiti con materiali deperibili, che hanno vita breve e che costano a tutti i contribuenti. Mantenere in piedi un edificio del genere non ha senso perché sono stati costruiti con una tecnologia costruttiva e dei materiali che tendono a invecchiare alla velocità della luce. È più economico demolirli e ricostruirli in maniera diversa».

Una soluzione, quella della ricostruzione, che parrebbe essere praticabile anche a livello economico. «Ho voluto dimostrare, attraverso un progetto – conclude Mazzola – che seguendo la prima normativa sull’edilizia popolare, quella del 1903, non solo è possibile riqualificare le aree, ma anche generare guadagni pubblici tramite la vendita di alcuni immobili e dei negozi».


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