Un cantiere modello gestito da una grande azienda lombarda per la realizzazione di un'opera attesa fin dagli anni '60 e dal valore di 111 milioni di euro. Ma, secondo quanto emerso da una inchiesta della Direzione distrettuale antimafia, tramite la divisione dei lavori in appalti inferiori ai 154 mila euro questi sono stati eseguiti senza la produzione dei certificati specifici, e affidati ad aziende collegate al clan La Rocca. Con la compiacenza di alcuni funzionari Anas, adesso indagati. Cinque gli arrestati, tra cui il reggente del clan Gioacchino La Rocca. Proprio dai suoi liberi accessi all'interno del cantiere sono iniziate le indagini
Caltagirone, la mano della mafia sulla Ss 683 Cinque arresti e due aziende sequestrate
Ci sono gli interessi della mafia dietro al prolungamento della strada statale 683 Licodia Eubea-Libertinia. È quanto emerso da una inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catania che, dopo mesi di indagini, ha scoperto il lucrativo business del clan La Rocca di Caltagirone, legato a Cosa nostra, che aveva già eseguito lavori sul primo stralcio del prolungamento, la cosiddetta variante Caltagirone per una cifra superiore al milione di euro. L’associazione di imprese titolare dell’appalto, del valore complessivo di 111 milioni, è composta dalla Fip Industriale di Padova, nota azienda di livello internazionale, dalla L. & C. Lavori e Costruzioni di Alcamo e dalla Tecnolavori di Palermo, e divideva in piccoli sub-appalti i lavori, affidandoli ad aziende controllate dai La Rocca. Con il doppio risultato di eludere la normativa che prevede un rilascio di un certificato antimafia, e l’accesso ai finanziamenti pubblici per un’opera iniziata nel 2011 attesa fin dagli anni ’60.
«La normativa prevede che sotto i 154mila euro non sia necessario acquisire un certificato antimafia – spiega il procuratore aggiunto della Dda di Catania Carmelo Zuccaro – A questo si aggiunge il ritardo nella registrazione dei contratti oltre la soglia, che gli uffici Anas hanno comunicato alla Prefettura di Catania dopo otto mesi», prosegue Zuccaro.
All’alba di questa mattina, su disposizione della Dda, che ha eseguito le indagini all’interno di una più grande inchiesta su mafia e appalti coordinata dal procuratore di Caltagirone Francesco Paolo Giordano, i carabinieri hanno quindi effettuato l’arresto di cinque persone, con l’accusa di associazione di tipo mafioso, intestazione fittizia di beni e concorso esterno in associazione mafiosa. Tra loro Gioacchino Francesco La Rocca, figlio del capo clan Ciccio, già in carcere, e attuale reggente dell’organizzazione. Proprio la presenza di La Rocca al cantiere ha insospettito i carabinieri. «Si tratta di un cantiere modello, dove non si è mai verificato un incidente e ogni ingresso e uscita veniva registrato. La Rocca, che non aveva nessun titolo, aveva però libero accesso», rivela il comandante della stazione di Caltagirone, il capitano Giovanni Orlando. Tra gli altri arresti anche l’amministratore delegato dell’impresa Fip spa di Padova, il veneziano Mauro Scaramuzza, che veniva regolarmente informato di quanto accadeva in Sicilia dal suo collaboratore Achille Soffiato, originario di Padova. I due gestivano anche i contatti con tre funzionari dell’Anas, attualmente indagati per abuso d’ufficio, ma non arrestati: non è stata confermata dal Gip l’aggravante del concorso esterno di tipo mafioso, reato invece contestato a Scaramuzza e Soffiato. «La decisione è stata presa dal giudice, anche se non corrispondeva alle richieste della procura», si limita a commentare il procuratore di Catania Giovanni Salvi.
Al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale, La Rocca avrebbe poi proceduto ad attribuire fittiziamente al cognato Giampietro Triolo ed al fratello di quest’ultimo, Gaetano, la titolarità della ditta To Revive srl, anche loro arrestati. Come accertato dalle indagini, La Rocca aveva invece la diretta gestione della To Revive, insieme alla Edilbeta costruzioni, aziende ora sequestrate e affidate a un custode giudiziario. «Qui siamo in un classico caso in cui imprenditoria sana, attraverso logiche mafiose, sottrae alla collettività un bene», commenta infine il comandante dei carabinieri di Catania, Alessandro Casarsa, il cui nucleo operativo ha coadiuvato le operazioni dei colleghi calatini. «Si è lavorato molto sui cantieri, dal basso, e l’indagine nasce dal piccolo, sfruttando la conoscenza del territorio dei carabinieri di Caltagirone», conclude Casarsa.