Per il parlamentare Pd «se il sequestro fosse confermato e diventasse confisca e, quindi, ci fosse la certificazione giudiziaria di questo comportamento contrario alla legge, sarebbe un fatto gravissimo». Per il vice presidente della commissione Antimafia «l'essere un collaboratore di giustizia non ti dà un mandato di impunità. Acquisiremo i verbali dalla magistratura»
Brusca e il tesoro milionario “nascosto” Fava e Mattiello: «Verifiche su eventuali violazioni»
Giovanni Brusca aveva nascosto beni per un valore di un milione di euro, «immobili intestati a prestanome e ingenti somme di denaro, sequestrate e poi restituite, la cui gestione era stata affidata a persone compiacenti, al fine di monetizzare un consistente capitale da reinvestire nella prospettiva della sua eventuale liberazione per fine pena». È quanto emerge, secondo la nota dei carabinieri, dall’indagine dei procuratori di Palermo iniziata nel 2009 e conclusasi nel 2011, che ha portato al sequestro di ieri e che ha consentito di «bloccare un piano di recupero, ideato e attuato dal boss di San Giuseppe Jato che prima della concessione dello status di collaboratore di giustizia, aveva omesso di dichiarare come a lui riconducibili, direttamente o per interposta persona, i beni posti sotto sequestro», tra cui un immobile intestato alla moglie, che vive in località segreta con il figlio.
Ma la legge, la 45/2001, è chiara e impone a ogni collaboratore di giustizia di dichiarare i beni illecitamente percepiti di cui dispone, direttamente o indirettamente; dichiarazione che va fatta al momento della sottoscrizione dell’accordo. E il collaboratore al momento dell’atto del rinnovo del suo programma nel 2005 ha rinnovato il suo impegno. Ma secondo la Procura ha mentito, infrangendo di nuovo le regole.
Giovanni Brusca, 58 anni, arrestato nel ’96 si “pente” solo nel 2000, per i primi tre anni le sue dichiarazioni sono piene di non ricordo e bugie per poter essere accettato come collaboratore di giustizia. Esecutore materiale della strage di Capaci, mandante del sequestro e dell’uccisione di Giuseppe Di Matteo, il quindicenne sciolto nell’acido, perché figlio del pentito Santino. Brusca, detto “u verru” (il porco) o “u scannacristiani” per la sua ferocia, avendo, come lui stesso ha dichiarato, ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti e ucciso più di cento persone, aveva nascosto allo Stato, che oggi lo protegge e che gli concede dei benefici, un tesoretto milionario.
Cosa accadrà dunque adesso con un provvedimento di sequestro alla mano?
«Se il sequestro fosse confermato e diventasse confisca e quindi ci fosse la certificazione giudiziaria di questo comportamento contrario alla legge, sarebbe un fatto gravissimo – dice a MeridioNews Davide Mattiello, componente della commissione Antimafia e coordinatore del V comitato che si occupa anche dei collaboratori di giustizia –. Sarebbe una prova ulteriore e a quel punto bisogna interpellare urgentemente la Commissione centrale (per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione, ndr) presieduta dal viceministro Filippo Bubbico, affinché verifichi e riconsideri la posizione di Brusca. Al momento – spiega il deputato Pd -, secondo quanto emerso da notizie di stampa, la Procura ha fatto proposta del sequestro e il Tribunale ha disposto il provvedimento. Ciò vuol dire che le indagini portate avanti dalla Dda di Palermo hanno avuto la preoccupazione di interrompere il tentativo di riciclaggio di patrimoni rimasti “nascosti”, nella previsione che Brusca si stesse muovendo per trasformare parte della propria ricchezza in ricchezza spendibile e utilizzabile nel momento in cui fosse terminata la sua condanna, cosa che succederà perché ha collaborato e quindi tornerà uomo libero».
«È chiaro che l’essere un collaboratore di giustizia non ti dà un mandato di impunità – dice il vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, Claudio Fava -. Le regole del gioco valgono per tutti. Il collaboratore è obbligato a dichiarare tutto ciò di cui dispone. La commissione, vista la notizia emersa, acquisirà, com’è normale che si faccia, gli elementi e poi valuterà. Suggerirò all’Ufficio di presidenza che si acquisiscano i verbali della magistratura».
Secondo quanto stabilito dalla legge (art. 16 octies), e specificato nella relazione del procuratore Armando Spataro, oggi procuratore capo della Repubblica di Torino (e dirigente nazionale Anm), «rientra nel giudizio sulla revoca della misura cautelare la verifica del rispetto degli “impegni contrattuali” da parte del collaboratore» e dunque di quelle premialità in positivo da parte dello Stato. E va ricordato che il programma di protezione, comprende anche l’erogazione di sussidi economici. La legge dice ancora che «tra le fattispecie di revoca delle misure di protezione, alcune devono ritenersi di applicazione automatica come ad esempio il rifiuto del collaborante di sottoporsi ad esame, ovvero di indicare i beni e le utilità economiche in possesso».
Concetti espressi anche nella relazione di Roberto Alfonso, già sostituto procuratore nazionale antimafia in cui si legge: «La revoca del programma può inoltre essere disposta se il collaboratore commette dei reati oppure viola il codice comportamentale, ossia non rispetta gli impegni assunti con la sottoscrizione dell’attestazione di cui all’art. 12 L. n. 82/91 e specificati al comma 2 dello stesso articolo; sopratutto se si tratta di comportamenti che pur non avendo rilievo penale, mettono a rischio l’incolumità dello stesso collaboratore e dei suoi familiari, rendendo inutile e superflua qualsiasi misura di protezione. Per quanto riguarda la commissione di reati, occorre precisare che essa è stata indicata come causa di modifica o di revoca del programma di protezione dall’art. 5 del D. Interm. n. 687/94, senza ulteriori specificazioni; pertanto anche una contravvenzione di lieve entità potrebbe determinare la revoca del programma, e, addirittura, ancor prima dell’accertamento di essa con sentenza irrevocabile».
Brusca aveva già violato le norme sui benefici carcerari nel 2004, quando durante i permessi premio che gli erano stati concessi dal Tribunale di sorveglianza di Roma, per poter uscire dal carcere ogni 45 giorni e poter far visita alla propria famiglia, emerse che utilizzava un telefono cellulare. Nel 2010 poi è stato accusato di riciclaggio, intestazione fittizia di beni e tentata estorsione. Secondo i pm di Palermo Ingroia, Del Bene, Sava e Buzzolani Brusca aveva taciuto l’esistenza di gran parte del suo patrimonio, cosa ammessa dal pentito in una lettera inviata a un prestanome, in cui scriveva relativamente ai suoi beni: «Ho mentito spudoratamente».
E già nel 2010, l’allora presidente della commissione centrale Alfredo Mantovano aveva dichiarato che la Commissione sui programmi di protezione avrebbe valutato di nuovo la posizione di Brusca «alla luce della nuova indagine sul tesoro che il pentito di mafia avrebbe occultato e riciclato. La consumazione di gravi reati dopo l’avvio della collaborazione impone la revoca del programma di protezione» aveva detto. L’allora sottosegretario per questo aveva chiesto alla Direzione distrettuale antimafia un’informativa dettagliata ai fini della valutazione della sua posizione.