Un faldone lungo 1865 pagine, che ricostruisce la vicenda del falso pentito Vincenzo Scarantino, imbeccato da uomini dello Stato per consegnare all'opinione pubblica un colpevole dopo la strage di via D'Amelio. Sancito «l'occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere»
Borsellino quater, depositate motivazioni della sentenza «Rientra tra i più gravi depistaggi della storia italiana»
Alla storia d’Italia piena di buchi, scritture parziali e narrazioni edulcorate adesso si aggiunge ufficialmente un altro tassello. È quanto accertato dalla Corte d’assise di Caltanissetta, che ha da poco depositato le motivazioni sul Borsellino quater – l’ultimo processo sulla strage di via D’Amelio, in cui persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e cinque persone della scorta (Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Troina). «Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana»: così viene sancito da uomini dello Stato, che puntano il dito su altri uomini delle istituzioni.
Le motivazioni dei giudici sono racchiuse in un faldone di 1865 pagine, che ricostruiscono l’incredibile vicenda dei falsi pentiti, imbeccati proprio da uomini dello Stato, ansiosi di consegnare all’opinione pubblica dei colpevoli dopo la mattanza di Cosa nostra del 19 luglio 1992. Il dispositivo della sentenza era stato consegnato il 20 aprile del 2017 e aveva condannato all’ergastolo per strage Salvino Madonia e Vittorio Tutino e a dieci anni per calunnia Francesco Andriotta e Calogero Pulci, finti collaboratori di giustizia usati per mettere su una ricostruzione a tavolino delle fasi esecutive della strage costata l’ergastolo a sette innocenti. Per Vincenzo Scarantino, il più discusso dei falsi pentiti e protagonista di rocambolesche ritrattazioni nel corso di 20 anni di processi, i giudici avevano dichiarato la prescrizione concedendogli l’attenuante prevista per chi viene indotto a commettere il reato da altri.
Ed è proprio su queste altre figure che si incentrano le motivazioni della sentenza. I giudici si esprimono in maniera ferrea contro chi, mosso da «un proposito criminoso», «esercitò in modo distorto i poteri». La corte d’assise di Caltanissetta, dunque, usa parole durissime verso chi condusse le indagini: il riferimento è al gruppo che indagava sulle stragi del ’92 guidato da Arnaldo la Barbera, funzionario di polizia poi morto. Sarebbero stati loro a indirizzare l’inchiesta e a costringere Scarantino a raccontare una falsa versione della fase esecutiva dell’attentato. Sarebbero stati loro a compiere «una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte».
La domanda da cui partono i giudici è sempre quella: cui prodest? A chi conveniva “confezionare” un così falso e palese capro espiatorio? Qui la corte può avanzare soltanto delle ipotesi (che dovrebbero poi ulteriormente essere approfondite): a partire ad esempio dalla copertura della presenza di fonti rimaste occulte. Ciò sarebbe evidenziato, scrivono i magistrati, «dalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee al loro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti alla realtà». Non è neanche il sospetto più inquietante. Perchè, come affermano sempre i giudici, resta scoperto il possibile «occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato».
Un decisivo spazio, nelle motivazioni della sentenza, viene poi dedicata alla celebre agenda rossa del giudice Paolo Borsellino: si tratta del diario personale che il magistrato custodiva nella borsa e che è sparito dal luogo dell’attentato a poche ore di distanza dai fatti avvenuti. Qui i giudici tornano a puntare il dito contro il “superpoliziotto” Arnaldo La Barbera che, secondo la corte, ebbe un «ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre».
Un capitolo, quello dell’agenda rossa, che sembrava chiuso dopo l’ultima recente archiviazione. E che invece potrebbe dunque potrebbe essere riaperto. Così come hanno fatto i pm della procura Stefano Luciani e Gabriele Paci che, anche grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, hanno riaperto le indagini sulla strage scoprendo il depistaggio. Non accontentandosi di sentenze che erano già state passate in giudicato. E, dopo la morte di La Barbera, una nuova inchiesta è già in fase avanzata e riguarda gli agenti che facevano parte del pool del “superpoliziotto”.