Solo due delle aziende catanesi ex mafiose avranno una nuova vita nel tessuto economico e sociale della città. Meno del dieci per cento delle 22 società confiscate alle mafie a Catania e già destinate per essere riutilizzate: 20 in liquidazione, una in affitto e una in vendita. Un quadro che rispecchia la situazione nazionale in cui, in media, oltre il 90 per cento delle imprese sottratte alla criminalità viene chiuso. Per le due superstiti la strada è tracciata: tramite l’affitto a un’impresa privata nel caso di una ditta di ristorazione che si trova in via Asiago; passando per la vendita, invece, per un’azienda della categoria alberghi e ristoranti di via Plebiscito che, sequestrata nel 1987, è passata alla confisca definitiva nel 2003. Pratiche non nuove, eppure ancora poco percorse. La scommessa è quella di dimostrare che tolti alla criminalità, i beni possono fruttare in modo legale attraverso il controllo costante promesso dall’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alle mafie nei confronti dei privati che le rilevano. Ma non mancano le criticità.
Come funziona. Prima di arrivare a soluzioni come l’affitto e la vendita, il percorso dei beni sottratti alle mafie è spesso lungo: dal sequestro preventivo alla confisca passano anni e lo stesso vale per l’iter che porta al loro riutilizzo. I ritardi sono dovuti ai passaggi fra vari soggetti istituzionali coinvolti. I beni confiscati in via definitiva entrano a fare parte del patrimonio dello Stato, che può mantenerli per finalità istituzionali o trasferirli agli enti territoriali che possono, a loro volta, gestirli direttamente o assegnarli tramite un bando in concessione a titolo gratuito alle associazioni. Se queste opzioni risultano impraticabili, lo Stato e l’Agenzia nazionale hanno la possibilità di metterli a reddito, affittandoli o vendendoli ai privati e facendo confluire i proventi nel Fondo unico giustizia che li distribuisce, poi, fra ministero dell’Interno e della Giustizia e associazioni di vittime di mafia. La nuova vita delle aziende sottratte ai mafiosi viene valutata caso per caso perché non tutte sono adatte a essere reimmesse nell’economia legale. Ci sono quelle che sono state strumento criminale in sé, oppure un modo per riciclare denaro o il frutto del reinvestimento. «In molti casi – spiegano dall’Agenzia a MeridioNews – le società sono personali anzi, l’imprenditore mafioso è l’azienda stessa» e dal tipo di connessione che ha avuto il gestore con l’attività può dipendere la vita dell’impresa dopo la confisca.
Vendesi-Affittasi. Per affittare o vendere un’azienda confiscata è necessario un bando. A cui «chiunque può partecipare». Ma dall’Agenzia nazionale spiegano che, «tramite le continue verifiche antimafia, ci si accerta che non ci siano collegamenti con la realtà cui il bene è stato sottratto». In questo senso, la legge prevede un’azione di salvaguardia: quando si ha contezza che il bene è finito di nuovo in mani criminali, scatta automaticamente la confisca, con un provvedimento del giudice e senza processo. Di fronte alla vendita e all’affitto di proprietà tolte ai mafiosi c’è ancora chi storce il naso. Qualche timore amministrativo è dovuto anche alla lentezza dell’iter burocratico per le procedure e alle difficoltà degli enti interessati di dialogare fra loro per l’esiguità del personale dedicato. Eppure, «ci sono aziende tolte ai mafiosi perfettamente in grado di stare sul mercato legale e di generare nuove forme di economia sana e pulita per i territori – spiegano dall’Agenzia – L’incidenza di vendite e affitti è ancora bassa ma è una via da percorrere perché non si può lasciare tutto il lavoro di riqualificazione e restituzione dei beni alla collettività in mano all’associazionismo. Anche queste, del resto, sono forme di restituzione del bene ai cittadini».
I debiti. «La giustizia non può generare ingiustizia». Il punto è: che succede se viene confiscato un bene che deve soldi a qualcuno? A rimetterci è il compratore o il creditore? Più o meno nessuno dei due. «Le aziende confiscate non possono fallire, perché la sottrazione del patrimonio ai mafiosi vale più delle questioni economiche, ma bisogna anche tenere conto del diritto dei creditori». Se viene confiscata un’azienda che ha dei debiti, i creditori possono accedere a una procedura di ammissione al credito. È un giudice che stabilisce se sono in buona fede ed estranei all’affare criminoso. Quelli ammessi vengono liquidati dall’Agenzia attraverso i soldi confiscati agli stessi mafiosi o tramite la vendita o l’affitto dei loro beni mobili o immobili. Insomma, a pagare sono sempre le mafie.
I rischi. «La maggior parte delle aziende confiscate viene destinata alla liquidazione perché non è in grado di andare avanti – lamenta a MeridioNews Luciano Modica, che dal 2014 è l’amministratore giudiziario dell’azienda etnea di autotrasporti Geotrans, un tempo in mano a Enzo Ercolano – Questo dipende da molte cose, prima fra tutte: era un’impresa reale o utilizzata solo per riciclare denaro?». Gestite con la forza dell’intimidazione, stavano sul mercato in un regime monopolistico godendo di vantaggi competitivi criminali: fornitori collusi o intimiditi si accordano a condizioni favorevoli per l’imprenditore, lavoratori in nero, evasione fiscale, concorrenza scoraggiata dalle ritorsioni. Dopo il sequestro queste condizioni vengono meno «e se il bene va ad amministratori incapaci – precisa Modica – è la fine. In quest’ottica, vendita e affitto sono una bella sfida non priva di rischi». I tentacoli dei mafiosi attraverso prestanome compiacenti potrebbero rifarsi avanti e c’è l’ombra del fallimento per il nuovo imprenditore che deve ricominciare da zero. «I vecchi clienti spariscono da un giorno all’altro anche a causa del boicottaggio alle aziende confiscate imposto, direttamente o indirettamente, dai precedenti proprietari».
Le alternative. Ogni storia giudiziaria è differente e diversi sono i beni confiscati alle mafie e i territori in cui sono inseriti, trattarli tutti allo stesso modo sarebbe sbagliato. «Una buona soluzione per le aziende che sono operative nel mercato – dice Luciano Modica – è quella di destinarle alle cooperative dei lavoratori». I dipendenti spesso sono del tutto estranei ai progetti criminali dell’imprenditore e conoscono bene la ditta per cui hanno lavorato. «Loro potrebbero avere le caratteristiche giuste per portare avanti l’attività più di un imprenditore esterno che non ne conosce la storia e le dinamiche».
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