Terzo album per la rock band americana, seppur con qualche ombra. La qualità della musica proposta fin qui dalla band è stata di bassissima lega, tanto che parlare di Audioslave è ormai più amarcord che altro Guarda il videoclip di 'Original fire' (da sonybmg.com)
Audioslave: ‘Revelations’
AUDIOSLAVE – Revelations (Epic)
Tracklist:
1. Revelations
2. One And Same
3. Sound Of A Gun
4. Until We Fall
5. Original Fire
6. Broken City
7. Somedays
8. Shape Of Things To Come
9. Jewel Of The Summertime
10. Wide Awake
11. Nothing Left To Say But Goodbye
12. Moth
Chissà perché ogni qualvolta si parla degli Audioslave c’è sempre quel velo d’amarezza figlia della malinconia. Malinconia per tempi andati, oramai lontani più di due lustri in cui i cari signori accomunati dalla ragione sociale di cui sopra avevano davvero tanto da dire nel panorama rock mondiale. C’erano i Soundgarden che si permettevano il lusso di unire il sudore energetico dei Led Zeppelin all’oscurità di Black Sabbath, miscelando il composto con punk e melodie di stampo alternative-metal, sbancando le classifiche col colpaccio Black Hole Sun (vedi Chris Cornell). C’erano i Rage Agains The Machine che trasformavano definitivamente gli esperimenti di Aerosmith con Run DMC ed Anthrax con Public Enemy in un inscindibile corpus che tanto (tutto?) ha dato al crossover, al nu-metal in particolare (vedi la triade Morello, Wilk, Commerford). Gente che di dollaroni ne ha guadagnati parecchi, successo ne ha avuto (e ne ha tuttora, anche se un po’ intaccato) addirittura in esubero.
Il tempo però è una carogna, un nemico che ti aggredisce alle spalle e ti schizza via dalle mani anche quando pensi di averne il più totale controllo. E il tempo passa per tutti, anche per chi una volta sedeva sulle dorate poltrone dell’Olimpo del Rock. Da quei tempi molto è cambiato. Alcuni dei protagonisti sono ascesi all’Eden che si riserva a chi si immola aborrendo queste terrene brutture; qualcun altro è uscito dalla porta di servizio per poi comparire nuovamente, magari sfoderando l’asso della reunion che non guasta mai; altri ancora, come i Nostri, si riciclano con ammirevole caparbietà tentando di scacciare il più lontano possibile lo spettro di una pensione ampiamente meritata.
Riallacciandoci al preambolo con cui abbiamo esordito, sapete perché parlare di Audioslave è più amarcord che altro? Per il semplice e fin troppo evidente motivo che la qualità della musica proposta fin qui dalla band è sempre stata di bassissima lega. Idee raffazzonate qua e la dalla chitarra di Jimmy Page rilette secondo la lente di un Morello che dovrebbe vestire i panni della motrice dell’ensemble e che, invece, pare sempre più attanagliato da un’ispirazione in stato d’esaurimento cronico. Sentirgli sfornare un riff universale per tutte le songs (prontamente rivisitato ogni tanto per non farla troppo palese e ruffiana), degno della band alle prime armi che strimpella in garage (e che magari, nel frattempo, si è evoluta), regala una cupa sensazione di tenerezza mista a compassione. Sentire Cornell ostinarsi a vestire i panni della rockstar urlatrice quando le sue corde vocali richiederebbero tutt’altro trattamento rende l’umore davvero basso (lo attendiamo quindi con ansia per l’atteso sequel del suo unico album solista). Sentire la coppia perfetta Wilk/Commerford andare cocciutamente allo stesso passo di sempre, quel maledetto quattroquarti che son quattordici anni che lo suonano, come se il ticchettio del metronomo si fosse inceppato e nessuno si fosse preso la briga di sistemarlo, magari cambiandogli le pile, comincia alla lunga a darci l’orticaria ai timpani. Sentire canzoni mosce dove il mordente è praticamente latitante e senza la pressoché minima vena creativa come Broken City, Jewel Of The Summertime, Until We Fall, l’improbabile soundgardeniana Sound Of A Gun, non può far altro che convincerci sempre più che gli Audioslave siano un fenomeno cotto a puntino da chissà quale manager (chi ha detto Susan Silver?) che verte a lucrare sul curriculum vitae dei signori qui presenti. Perché di altro c’è davvero poco, se non nulla. Canzoni di un anonimato semplicemente agghiacciante, con melodie orripilanti e tremendamente elementari, così come la (oramai abbandonata) ricerca di estrazione di nuovi timbri dalla chitarra di Morello, che si affida all’abusatissimo wah-wah per cambiare un tantino registro. Le sole Somedays, Shape Of Things To Come e la title-track (che tra l’altro nel refrain rischia seriamente di affondare nel più tronfio del rockettino castrato) possono mai bastare per avvicinarsi alla cassa del vostro negoziante di fiducia con una carta azzurra da venti euro più spicci? E insomma!
Ovviamente non mancherà qualche autorevole scribacchino che, in preda ad un raptus di servilismo tipico di chi non può dire di no a certi nomi, si genufletterà al cospetto delle gesta passate dei quattro (perché del presente ha ben poco di che compiacersi) ed attaccherà con la solita tiritera della potenza del rock e dell’energia che esso sprigiona, spacciandoci gli Audioslave per gli unici rimasti tra i grandi salvatori di un rock d’altri tempi, visti i recenti inabissamenti dei Pearl Jam. Scuola di pensiero rispettabile, d’altro canto. Peccato che solo una manciata di canzoni del disco d’esordio non valgano un’intera carriera che già varca la soglia del terzo album (il secondo parto, Out Of Exile è per certi versi ancora più brutto di questo). Noi consigliamo la diffusione ambientale di Revelations nelle sale operatorie un po’ prima dell’operazione. Tanto fa lo stesso effetto dell’anestesia, magari è anche più sicuro. Goodbye Audioslave!