Astrolabio del ‘500 nei depositi del Castello Ursino «Strumento complesso, forse portato da Biscari»

Autunno 2014, Catania. Quando Andrea Orlando, un dottorato in Astrofisica in tasca, mette piede nei magazzini del Museo civico Castello Ursino per analizzare alcuni strumenti scientifici, non può immaginare il tesoro che si troverà tra le mani. E invece, lasciato lì a prender polvere su uno scaffale da chissà quanti anni, eccoti un monumentale cipollone dorato, un incastro di bulloni, uncini e cinghie, un astrolabio firmato Arsenius: l’ultimo grido, ai tempi di Copernico. Siamo nel XVI secolo, Fiandre. Gualterus Arsenius è un costruttore di minute chincaglierie di lusso e fragili marchingegni astronomici: sfere armillari, annuli astronomici, balestriglie, orologi solari, astrolabi. E non c’è principe europeo che non si strappi i capelli per uno dei suoi ammennicoli. È l’epoca d’oro della tecnologia rinascimentale, quella che prelude alla Rivoluzione scientifica, e strumenti come questi – specie se di alta fattura – sono uno status symbol. Qualcosa che avresti voluto esporre in salotto per fare invidia agli amici, come una tv di ultima generazione da 100 pollici.

Gennaio 2018, Catania. Dopo tre anni, l’astrolabio è messo a nuovo. Presentato al pubblico in occasione della rassegna invernale di astronomia e musica antica, l’artefatto sarà nuovamente esposto al Castello Ursino il 21 gennaio, e poi ancora in primavera, in occasione della mostra Meccanismi celesti, che verrà allestita dall’assessorato alla Cultura guidato da Orazio Licandro e dalla direttrice del castello Ursino Valentina Noto. «Li ringrazio entrambi per la loro sensibilità», dice Orlando. Efficienti ed esteticamente raffinati, gli astrolabi di Arsenius sono tra i più pregiati, e se ne conservano solo 27 esemplari in tutto il mondo. E adesso Catania ha il ventottesimo. Bellissimo. Ma forse c’è ancora una domanda rimasta insoluta: che fa un astrolabio? A spiegarlo è l’archeoastronomo – uno dei pochissimi in Sicilia – Andrea Orlando.

Astruso quanto il nome che porta, l’astrolabio ha l’aspetto di un arnese terribilmente complicato.
«Effettivamente è complicato, forse il più complicato strumento astronomico dell’antichità dopo la macchina di Anticitera (un antico planetario, ndr). Complicato perché versatile: non serve solo per calcoli astronomici, ma anche topografici, cronometrici, geodetici, geometrici e astrologici. Una specie di antenato del computer. Ed è stato usato per più di mille anni, nel Medioevo e nel Rinascimento, soprattutto come strumento astronomico in navigazione, per calcolare l’altezza dei corpi celesti rispetto all’orizzonte».

Si può spiegare, in termini semplici, come funziona?
«Il principio di base è la proiezione stereografica: considerando il sistema geocentrico, ogni punto della sfera celeste – a tre dimensioni – viene proiettato sulla superficie bidimensionale dell’astrolabio, su cui si fanno i calcoli».

E sono calcoli attendibili, anche oggi?
«Sì, certo! L’astrolabio faceva praticamente quello che oggi fa il teodolite (un altro strumento di misurazione, ndr)».

Ma come c’è finito a Catania un astrolabio di Arsenius?
«Non possiamo saperlo con esattezza, perché non c’è nessun documento d’archivio, ma possiamo fare delle ipotesi. Il timpano di questo astrolabio in particolare è stato progettato appositamente per la latitudine di Firenze, dove sono conservati altri due esemplari in una collezione medicea. Quindi Arsenius avrebbe costruito l’astrolabio per i Medici. Poi è probabile che sia stato Biscari, nel ‘700, ad acquistarlo da qualche antiquario fiorentino. Ma se n’era persa ogni traccia».

Fino alla scoperta di tre anni fa.
«Esatto. L’ho trovato esplorando i magazzini del Castello Ursino insieme a una ventina di altri oggetti, la maggior parte dei quali però figuravano anche nei documenti. Un altro nome però riemerso dal nulla, insieme a quello di Arsenius, è quello di Stanislao Scoto, canonico della Collegiata di Catania e costruttore di orologi solari in legno. Su tutte queste scoperte, insieme a Manuela Lupica di Officine Culturali, ho pubblicato un articolo sulla rivista Agorà».

Lei ha un dottorato in Astrofisica nucleare e delle particelle. Però è un archeoastronomo. Di che tipo di studi si tratta?
«Guardi, mi sono sempre occupato di beni culturali. Dove per “beni culturali” intendo antichi strumenti scientifici. L’archeoastronomia in senso stretto studia i templi, e l’orientamento astronomico degli edifici antichi. Quello che studio io, più precisamente, è l’Astronomia culturale, cioè la storia dell’astronomia».

Ma è qualcosa a cui i fisici duri e puri guardano con sospetto?
«Fino a qualche anno fa è stato così, e tuttora l’archeoastronomia in Italia è insegnata solo al Politecnico di Milano e alla Sapienza. Però certi suoi metodi, come l’archeometria, sono fondamentali, e usati nei musei di tutto il mondo per datare i reperti. È un campo multidisciplinare che richiede la collaborazione tra esperti di campi diversi, ma purché sia praticato in modo serio e scientifico dà ottimi frutti. Purtroppo molti dilettanti si sono improvvisati archeoastronomi, e questo ha a lungo danneggiato l’immagine della disciplina».


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