Affrontare e superare la sindrome da capanna dopo due anni in cui inevitabilmente si è dovuto accettare di ridurre i contatti sociali. Per paura di contrarre il Covid, ma anche di essere veicolo di contagio
Gli effetti della pandemia sulla salute mentale
«Dottoressa siamo stanchi» mi sento dire dalla maggior parte dei miei pazienti. «Sì, ma ora basta!», affermano, scocciati, amici e conoscenti. Nonostante buona parte di loro (così mi riferiscono) abbiano sempre utilizzato mascherina, distanziamento (che viene definito sociale ma per me è fisico), igienizzazione mani,accorgimenti, precauzioni, siano stati prudenti, si siano vaccinati ecc… hanno (avrebbero) voglia, tanta voglia, di ritornare alla vita normale.
«Cosa intende per vita normale?» chiedo spesso. «Vorrei uscire come prima; più che altro vorrei ri-avere la voglia di uscire che avevo prima, e quando esco vorrei godermela invece di essere inquieto e chiedermi e richiedermi se abbia fatto bene, o meno, ad andare fuori casa». Attualmente si assiste a una sorta di timore dell’esterno; la casa, infatti, rappresenta il nido, il porto sicuro, la propria cuccia, un po’ quello che per la tartaruga è il guscio.
L’effetto collaterale più tangibile, conseguente ai lockdown e a tutto ciò che ne è conseguito, è stata la cosiddetta sindrome della capanna (o del prigioniero): la paura di uscire e lasciare il posto che ci ha fatto, e ci fa, sentire al sicuro; quello in cui nonostante tutto abbiamo trovato un rifugio sin dai primi mesi di pandemia.
I 4 timori più avvertiti, rientranti in tale sindrome, sono i seguenti:
– paura (in alcuni casi terrore) verso il mondo esterno
– paura di ammalarsi
– timore di contagiare i propri cari
– convinzione di non ritrovare più il mondo che si conosceva prima
Sembra quasi che non si abbia più la naturalezza di prima nell’avvicinarsi agli altri, è come se si debba costantemente trovare la giusta distanza. Distanza che ci consente di non sentirci troppo soli (e poco riscaldati dalla presenza dell’altro) e, al contempo, che non ci faccia avere paura. Paura di essere contagiati, paura di contagiare. Paura di subire il Covid-19 e paura di essere veicolo della malattia, del malessere, di persone a noi care. Tutto ciò attanaglia i cittadini: il timore che per colpa dell’uscita o dello svago ci si possa, poi, sentire colpevoli di essere stati untori.
La mancanza di libertà che noi tutti abbiamo esperito a causa del Covid-19 (e, ahimè, tutt’ora chi è ligio alle regole sta sperimentando) rappresenta per i più (adolescenti in primis, ma anche adulti) un importante disagio. Dal febbraio del 2020 la reale, e brutale, sfida cui tutti noi siamo stati costretti è stata la capacità di adattamento. Le misure anti-Covid ci hanno anche obbligati a rivedere, aggiustando il tiro, il nostro concetto di libertà e a privarci di ciò che rappresentavano per noi delle azioni semplici, frequenti e rasserenanti, come abbracciare una persona cara.
In poche parole abbiamo dovuto riorganizzare la nostra routine. Per quanto difficile, innaturale e stancante sia stato, in tanti ce l’hanno fatta. Ora, però, sembra quasi che la corda si stia spezzando. Anche i più attenti e accorti pare vogliano lasciare la presa e proprio per tale ragione è importante, ancora una volta, trovare valvole di sfogo che ci aiutino a vivere la quotidianità in modo naturale, seppur di naturale in questo lungo e reiterato periodo ci sia ben poco.
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Dott.ssa Antonietta Germanotta
Psicologa e psicoterapeuta sistemico relazionale
Psicotraumatologa EMDR
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