Via D’Amelio, la testimonianza dell’unico sopravvissuto «Avola? Ricostruzione falsa per allontanare la verità»

«Si è chiesto perché, quasi trent’anni dopo, si presenta uno che di professione faceva il killer e racconta una versione che lei oggi ha chiaramente smentito?». Un’idea del perché Maurizio Avola abbia, d’un tratto, iniziato a parlare della strage di via D’Amelio, fornendo dettagli che fin qui non avevano mai avuto riscontro nelle indagini, Antonio Vullo ce l’ha. E ha lo stesso sapore ambiguo che accompagna la maggior parte dei fatti legati a quello che resta uno dei misteri più intricati dell’Italia repubblicana. Vullo è l’unico sopravvissuto degli uomini della scorta di Paolo Borsellino ed era in via D’Amelio quando la 126 imbottita di tritolo saltò in aria. «Per me, queste dichiarazioni sono legate al fatto che siamo vicini a diverse sentenze e ogni volta che si arriva al punto di scoprire un po’ di verità – ha dichiarato Vullo durante l’audizione di questo pomeriggio in commissione regionale Antimafia – si torna sempre indietro. E poi tutte le persone che giravano trent’anni fa sono ancora in giro».

Il riferimento dell’ex poliziotto va alle parole del collaboratore di giustizia catanese raccolte dal giornalista Michele Santoro nel libro Nient’altro che la verità. La versione di Avola è stata già smentita abbondantemente dai pubblici ministeri della procura di Caltanissetta e ha trovato spazio anche nell’audizione di oggi. Dall’ipotesi che le auto di scorta fossero entrate a sirene spiegate in via D’Amelio, dove abitava la madre di Borsellino, al particolare dello sportello dell’auto lasciato aperto dal giudice, fino a uno scatto che Emanuela Loi – una degli agenti che persero la vita nell’attentato – avrebbe fatto verso di lui nell’attimo in cui l’ordigno stava per deflagrare. «Una ricostruzione bizzarra e frettolosa», l’ha definita il presidente della commissione Antimafia Claudio Fava. Così come l’ipotesi della possibilità di intervenire con il bazooka nel caso l’ordigno non fosse esploso. «Avola dice che erano tre o quattro, mi sembra strano, sapendo che noi eravamo in sei e armati – ha aggiunto Vullo – Ciò che mi ha fatto più male è stato sentire come è stato presentato questo libro, come se fosse tutta verità. Ha macchiato il nostro operato, mentre noi abbiamo fatto da scudo al giudice con dedizione e paura. Borsellino – ha sottolineato – meritava di essere protetto e, invece, da subito è stato solo e noi eravamo soli con lui». 

Dalle parole di Vullo emerge tutta la precarietà che sembra avere caratterizzato le otto settimane che hanno separato la strage di Capaci, dove perse la vita Giovanni Falcone, da quella di via D’Amelio. E questo nonostante il fatto «che il prossimo a cui toccava (morire, ndr) era Borsellino». Rimasto gravemente ferito nell’attentato, l’agente entrò come componente della scorta a fine maggio. Una settimana dopo la morte di Falcone e senza particolare formazione. «Molti colleghi anziani non volevano stare con la scorta di Borsellino – ha messo a verbale Vullo – Noi non eravamo volontari, ma lavoravo alla questura e il 31 maggio mi trasferirono nell’ufficio scorte. Non avevo fatto corsi specifici, ma eravamo preparati».

L’ingresso in via D’Amelio e la scoperta di come la via fosse piena zeppa di auto parcheggiate, nonostante dovesse essere evidente a tutti che quello era un obiettivo sensibile, stupì Vullo e gli altri agenti. «Era la prima volta che andavamo in via D’Amelio, conoscevo la strada per la presenza di alcuni campetti di calcio ma non ne conoscevo il nome», ha raccontato. Specificando che, se quel tipo di informazione fosse arrivata prima, avrebbero chiesto il contributo del personale addetto alle bonifiche. «Io che ero alla guida di un’auto mi sono bloccato perché ho visto tante macchine parcheggiate – ha ricordato – Ma il giudice ci ha sorpassato e si è parcheggiato al centro della strada. Io mi sono messo affianco, ho fatto scendere gli altri agenti. Poi mi sono posizionato alla fine della via, per controllare la mia zona di competenza, fuori dall’auto con la pistola in mano».

Vullo ha affermato di non ricordare di avere visto a Borsellino la famosa agenda rossa e che, proprio per il colore, se l’avesse avuta con sé, se ne sarebbe accorto. Un altro particolare che in questi decenni lo ha lasciato perplesso è il fatto che l’ordigno non è esploso al momento dell’uscita dell’auto. «Sono trascorsi diversi secondi, il giudice si è fatto accendere la sigaretta da Loi – ha proseguito Vullo – è come se qualcosa abbia fatto ritardare l’attentato. Come se la mia auto, che quando aveva lo sportello aperto non faceva funzionare la radio, abbia creato un’interferenza».

Che le misure di sicurezza per Borsellino non fossero all’altezza di chi, anche per le persone comuni, era diventato il primo obiettivo di Cosa nostra lo si comprende anche da altri elementi. Dal 31 maggio e fino al 17 giugno, per esempio, al giudice fu assegnata soltanto un’auto di scorta. «Solo dopo fu messa la vigilanza fissa in via Cilea (dove Borsellino abitava, ndr)», ha detto Vullo. Risale, invece, al 16 luglio un episodio che turbò tutta la scorta. Era ancora notte e Borsellino doveva andare in aeroporto. Fuori dall’abitazione la scorta trovò una Lancia Thema e un furgoncino della società telefonica. «Ci colleghiamo con la centrale della questura e ci dissero che i mezzi non risultavano rubati – ha ricordato Vullo – Ma ciò non significava granché, potevano essere stati rubati poche ore prime e la scomparsa non essere stata ancora denunciata». 

Gli agenti si fanno coraggio e partono in auto, con Borsellino che era alla guida di uno dei mezzi. «Quel giorno, l’altra auto di scorta che faceva la staffetta ha sbagliato lo svincolo di viale Lazio e il giudice si è fermato allo svincolo. Io, da dietro, ho suonato per farlo andare. C’era paura – ha ammesso Vullo – Il giudice iniziò ad andare veloce, poi l’altra auto ci raggiunse in autostrada. Quando arrivammo in aeroporto accadde una cosa che ci ferì. Traina (un altro agente della scorta, ndr) parlando al telefono con l’operatore delle scorte si sentì dire: “Vabeh, colleghi, ma ora che vi mettono la bomba nella traversina?”». Parole leggere che, poco più di 72 ore dopo, si sarebbero perse nel boato di via D’Amelio.


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