Noto, Rino Albergo aveva puntato su patatine e wurstel Quello che c’è da sapere sull’ultimo sequestro al boss

«Il ragazzo è diventato il principale, è andata a finire al contrario». Considerato che di mezzo ci sono patatine fritte, wurstel e petti di pollo, spingersi in richiami gattopardeschi per parlare di come il boss Rino Albergo abbia tentato di tenersi stretto i propri affari sarebbe eccessivo. Tuttavia, l’esponente del clan Trigila aveva pensato che l’unica via per mantenere il controllo delle attività economiche aperte a Noto e finite nel mirino della magistratura era proprio quello di cambiare. Se non tutto, almeno i titolari delle aziende. È in questo contesto che va interpretata la frase detta, ad agosto del 2019, da Corrado Albergo a Giuseppe Balistreri. Il primo è uno dei figli del boss, il secondo un ex dipendente del chiosco che un mese prima era stato sequestrato insieme a un pub e un bar. Dal preparare i seltz, Balistreri in poche settimane si ritrova a essere titolare della ditta M’appitittau. Dietro però ci sarebbe stato sempre lui, Waldker Domenico Albergo. Per gli amici Rino.

Ad appurarlo sono stati gli uomini del Gico di Catania, che quell’estate hanno continuato a seguire i movimenti di Albergo. Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, che hanno ottenuto il sequestro anche della nuova ditta, il boss avrebbe puntato su un camion dei panini. Per mettere in atto il progetto, si sarebbe avvalso della collaborazione del commercialista avolese Niccolò Lentini. È proprio lui che si sarebbe occupato di reperire il mezzo. A inizio agosto, Lentini chiama un compaesano che aveva intenzione di vendere un furgone. «Ma senti una cosa, per un mese, un paio di mesi, lo vuoi affittare?», gli chiede. L’uomo non è molto convinto. «Affittare? Sa quanti ce ne sono, fino a mezz’ora fa mi hanno scritto». A quel punto, Lentini inizia a essere più esplicito, ma senza fare nomi. «Non è una persona come le altre, questo è un amico – dice il commercialista – Un amico di Noto». Basta il riferimento alla città barocca per far cambiare idea all’avolese. «Ma l’amico nostro? Ah, va bene, non è che gli posso dire no».

Inizia così il nuovo capitolo della storia di come il boss Rino Albergo tenta di eludere le attenzioni dell’autorità giudiziaria. La procura è convinta che le risorse usate per avviare le attività nel settore della ristorazione, in uno dei luoghi che fanno parte del patrimonio Unesco, non siano di provenienza lecita. Nella primavera del 2019, dopo che dalla prefettura era partita una serie di interdittive antimafia, l’esponente del clan alleato della famiglia mafiosa catanese dei Santapaola-Ercolano aveva provato a mischiare le carte tramite la creazione di tre ditte individuali intestate a nuore e genero. Il tentativo, però, si era rivelato vano: nel giro di pochi mesi il tribunale aveva disposto i sigilli per le attività e Albergo si era trovato di nuovo nella condizione di dover trovare una soluzione. E questa sarebbe passata dal vendere i panini targati M’appitittau

«Nel frattempo che siamo chiusi con i locali, ho aperto un camion dei panini. Mi servirebbe il petto di pollo, la messicana, la valdostana… tutte queste cose qua», dice il figlio del boss a un fornitore di carni. A riprova, per gli inquirenti, di come dietro l’impresa ci fosse la famiglia Albergo e non Giuseppe Balistreri. Il 32enne ex dipendente del chiosco, sottolineano i finanzieri del gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata, riceveva «direttive circa l’orario di lavoro e le mansioni da svolgere da parte di Corrado Albergo». Per quanto principale, sempre il ragazzo era.


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