Montante, i legami con Cosa nostra del paladino antimafia I presunti favori: dai cantieri alla scalata a Confindustria

Nel gigantesco bluff dell’antimafia messo su da Antonello Montante, con perniciosa attenzione per i dettagli e abbondante creatività, quale ruolo spettò alla mafia, quella reale? Il quesito, tutt’ora al centro di una diversa indagine, costituisce la genesi dell’inchiesta che ha portato alla condanna a 14 anni dell’imprenditore di Serradifalco, ma nato a San Cataldo dove, 56 anni fa, venne registrato come Antonio Calogero. Nella sentenza della gup Graziella Luparello, ai rapporti con Cosa nostra sono dedicate quasi duecento pagine. Un intero capitolo che raccoglie le parole dei collaboratori di giustizia, fatti storicamente accertati, omissioni e vicende la cui verifica è stata azzoppata da quello che la giudice definisce «un sistematico boicottaggio da parte dello stesso Montante e dei suoi accoliti».

Tutto parte proprio da Serradifalco, centro del Nisseno di meno di seimila abitanti. Qui Montante inizia a muovere i primi passi in quel mondo dell’imprenditoria che lo vedrà protagonista, con la scalata all’associazione degli industriali per poi sconfinare, quasi per osmosi, nella politica e nelle istituzioni. Un sistema di potere capace di autoalimentarsi, comprendente anche diversi esponenti delle forze dell’ordine e dei servizi. Prima di tutto, però, c’è Serradifalco, dove a rappresentare Cosa nostra è la famiglia Arnone.

Paolino e il figlio Vincenzo, nel 1980, furono testimoni di nozze di Montante. Una circostanza che l’imprenditore ha cercato per anni di nascondere per poi, diffusasi la notizia, tentare di convincere tutti che si fosse trattato di una casualità o poco più. «Effettivamente non ricordo se mi fece da testimone alle nozze, ma devo precisare che sposai mia moglie in fretta e furia quando non avevamo ancora diciotto anni», dice nel 2011 agli investigatori, che lo convocano come persona informata sui fatti nell’ambito di un’altra indagine.

A non mettere in dubbio i propri ricordi sono invece una serie di collaboratori di giustizia. Uno di questi è Salvatore Ferraro, vicino a Paolino Arnone, del quale ricorda il legame con il boss Piddu Madonia all’epoca rappresentante provinciale di Cosa nostra a Caltanissetta. «Dopo che Arnone mi fece conoscere Montante – mette a verbale nel 2016 – gli chiesi chi fosse e mi rispose che si trattava di un ragazzo a posto al quale dava una mano d’aiuto, finanziandolo per poter ingrandire la sua attività imprenditoriale». Il pentito Aldo Riggi racconta invece un episodio in cui sarebbe stato Montante ad aiutare Arnone. Siamo a inizio anni Novanta e la ditta di autotrasporti degli Arnone non naviga in ottime acque, dopo avere perso il lavoro con la miniera di Pasquasia. Per questo motivo Arnone avrebbe deciso di inserirsi nei lavori di realizzazione di un immobile a Caltanissetta, di cui si stava occupando un’impresa di Montante. «Mi ha detto – ricostruisce Riggi – “Arnone è rimasto senza lavoro, avi un sacco di articolati fermi. La continuazione della fornitura me la deve fare lui». Il pentito aggiunge che Montante gli aveva fatto capire di non poter dire di no ad Arnone, non solo perché amico ma anche perché entrava «in qualità di mafioso». Un altro collaboratore di giustizia, Dario Di Francesco, sostiene che Arnone ha fornito protezione a Montante in occasione di alcuni lavori a San Cataldo: il boss di Serradifalco avrebbe interceduto con il referente della cosca locale, affinché non venissero fatte richieste estorsive. In cambio il clan si sarebbe occupato delle forniture per il cantiere di Montante. Nei verbali di Di Francesco trova spazio pure una riunione a cui parteciparono anche Luigi Ilardo e Carmelo Allegro durante la quale Montante era stato descritto come «un amico nostro».

I rapporti tra Montante e Vincenzo Arnone confluiscono dentro l’associazione degli industriali. A parlarne è sempre Di Francesco, secondo il quale dietro l’elezione di Montante a presidente dei giovani industriali ci sarebbe stata la sponsorizzazione di Arnone. Di quella vicenda, avvenuta a metà anni Novanta, conserva un ricordo nitido Marco Venturi, già assessore regionale del governo Lombardo e uomo di fiducia di Montante fino a quando, a settembre 2015, non decide di presentarsi in procura per denunciare ciò che non andava in Confindustria. Agli inquirenti Venturi parla di un’elezione strana, come se fosse stata «imposta» da qualcuno. Un’elezione per acclamazione, contornata dal timore reverenziale suscitato da Montante, capace di dettare la linea anche al direttivo senior. Da parte sua Montante avrebbe ricambiato l’impegno di Arnone riuscendo a farlo designare tra i saggi dell’associazione, ruolo che Arnone svolse anche quando Venturi prese il posto di Montante come guida dei giovani industriali.

Il quadro è aggravato dalla scomparsa dei documenti dell’epoca, che la giudice ritiene sia «imputabile a Montante». A riguardo, il direttore e un dipendente di Confindustria hanno detto che Montante, in più di una circostanza, aveva manifestato l’esigenza di portare via la documentazione «perché la classe dirigente precedente avrebbe potuto farne uso contro di lui». In realtà il timore dell’industriale sarebbe stato legato alla possibile scoperta della vicinanza ad Arnone e dell’inopportunità di averne favorito l’ingresso nell’associazione. Il 53enne ha più volte sostenuto di non essere stato a conoscenza del fatto che Arnone fosse mafioso fino al 2001, anno in cui Arnone viene arrestato nel blitz Urano. La versione però non ha mai convinto: un decennio prima, infatti, gli Arnone erano stati coinvolti nell’operazione Leopardo. Fatti riportati dalle cronache del tempo e a cui era seguito anche il suicidio di Paolino.

Un altro episodo inquietante, che però non ha avuto modo di essere verificato, è quello riportato da Pietro Di Vincenzo, ex presidente di Confindustria e trasformato da Montante in nemico giurato. Di Vincenzo, a cui negli anni passati è stato confiscato un ingente patrimonio, ha raccontato che nel 2005, in occasione del rinnovamento dei vertici di Confindustria, Montante avrebbe fatto avvicinare alcuni imprenditori da Arnone, per intimidirli e convincerli a votare per lui. Viene invece ritenuto verosimile dalla gup, la possibilità che Montante in precedenza avesse proposto a Di Vincenzo di fare intervenire Arnone per fermare le intimidazioni che stava ricevendo.

Nei confronti dei mafiosi Montante si sarebbe cimentato anche nei panni di mecenate della giustizia, come lo definisce la giudice. In un caso, avrebbe pensato di offrire denaro alla famiglia di Di Francesco per convincerlo a pentirsi e accusare un proprio rivale. Progetto che però sarebbe stato stoppato da Arnone. Il boss di Serradifalco avrebbe fatto presente a Montante che quella collaborazione avrebbe potuto portare alla rivelazione di fatti compromettenti per lo stesso paladino dell’antimafia. «L’unto dal Signore per redimere i peccatori, fossero essi imprenditori, giornalisti o liberi professionisti, flagellarli per i loro misfatti e purificarli», scrive la giudice.


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