La Libia porto sicuro? Una recente sentenza lo smentisce Migrante: «Rinchiusa e abusata da polizia prima di partire»

Mentre gli occhi dell’Europa restano puntati verso Lampedusa, in attesa di spostarsi ad Agrigento dove si terrà l’udienza di convalida dell’arresto di Carola Rackete, la sensazione è che tensioni come quelle legate al caso Sea Watch potrebbero presto ripetersi. D’altronde, il ministro degli Interni Matteo Salvini già sabato ha rilanciato lo scontro. «Ci sono Open Arms e Alan Kurdi (la nave dell’ong Sea-Eye, ndr) che pare si stiano avvicinando alla Libia. In Italia c’è un governo che fa rispettare le leggi, non ci prendete più per fessi», ha detto Salvini, quando ancora non si sapeva che i migranti individuati da Open Arms sarebbero stati presi in carico dalla guardia costiera e dalla guardia di finanza italiana e portati in Sicilia. 

Quanto accaduto ha riportato l’attenzione sul ruolo della Libia nell’ambito del controllo del Mediterraneo – va ricordato che il coinvolgimento di Tripoli è iniziato sotto il precedente governo Gentiloni – e le garanzie che il paese nordafricano offre nel campo del rispetto dei diritti umani, questione imprescindibile per parlare di porti sicuri. Per Salvini la questione non si pone, la Libia è un valido interlcutore. Di avviso diverso sono invece non solo le ong ma anche larga parte della comunità internazionale. A partire dalla Commissione europea che, a metà giugno, quando ancora l’odissea della Sea Watch era agli albori, ha ribadito che riportare indietro i migranti non sarebbe stata una soluzione percorribile.  

Ma se quando a parlare sono ministri e istituzioni l’accusa di politicizzare la realtà è sempre dietro l’angolo, le cose sono diverse se a prendere parola è chi ha vissuto in prima persona l’esperienza migratoria. Non solo il viaggio in mare, ma anche e soprattutto ciò che ha preceduto l’imbarco. Una testimonianza fondamentale è contenuta nella sentenza del processo sui fatti accaduti sulla Vos Thalassa, l’imbarcazione italiana che opera a supporto delle piattaforme petrolifere e che l’estate scorsa salvò un gruppo di migranti in difficoltà. Alcuni di loro, la notte, furono protagonisti di una sommossa contro il personale della nave accusata di avere virato verso la Libia, dopo che le autorità nordafricane, pur in ritardo, avevano preso in carico la gestione dell’intervento Sar. 

Per quelle tensioni, due migranti sono stati assolti, dopo che il tribunale ha riconosciuto il principio della legittima difesa in proporzione ai rischi che avrebbero corso ritornando in Libia. A suffragio di questa tesi c’è il racconto – riportato dall’agenzia Redattore Sociale – di una 53enne partita da Zuara, città costiera situata nella parte occidentale della Libia, per motivi personali. Tra cui allontanarsi da un marito violento che, stando alle sue dichiarazioni, sarebbe parente di un ministro libico. «Una mia collega mi ha dato il numero da contattare per il viaggio», racconta al giudice, fornendo due numeri telefonici libici che oggi risultano irraggiungibili. L’attesa della partenza sarebbe stata un incubo. «Sono stata portata in una casa per 12 giorni dove ho subito violenze fisiche», mette a verbale, specificando anche di avere dato l’equivalente di mille euro ai propri carcerieri.

Quella della 53enne sembra una delle tante storie di violenze che arrivano dalla Libia, i cui segni spesso restano visibili sulla pelle dei migranti – e quando non lo sono, rimangono comunque i postumi psicologici -, ma in realtà c’è un elemento in più. Agli inquirenti la donna fa un nome, Aymen, indica in lui il «capo». Per le autorità italiane la donna fa riferimento a una precisa figura: Aymen Algafaz. Trentacinquenne originario di Zuara, Algafaz tre anni fa è finito persino nelle pagine del quotidiano statunitense Wall Street Journal, proprio per il presunto impegno contro i trafficanti di esseri umani. Nell’estate 2015, l’uomo ha infatti preso la guida di un gruppo, assurto presto a ruolo di polizia ufficiale della città, denominato Masked Men (Uomini mascherati, ndr). L’iniziativa è stata presa all’indomani di una delle tante tragedie al largo della Libia: 183 cadaveri sono riapparsi nelle vicinanze della costa, spinti dal mare e riportati a riva dai pescatori, mentre molti altri sarebbero rimasti nei fondali. «Il contrabbando è una piaga sociale qui, molte famiglie hanno le mani dentro», racconta Algafaz nell’intervista.

La nota testata d’oltreoceano ripercorre la storia di quella che di fatto è da intendersi come una milizia a tutti gli effetti. Anche se l’allora 32enne e i suoi amici vengono definiti come vicini al mondo del volontariato, qualcuno di loro addirittura una sorta di ex boy scout. Dopo avere conquistato la fiducia delle persone, anche attraverso l’uso dei social, il gruppo cresce fino a contare, a ottobre 2015, 125 unità. Con il volto mascherato di nero, gli uomini di Algafaz puntano a ripristinare la legalità suscitando l’apprezzamento della popolazione. Tuttavia, stando al racconto della migrante che ha viaggiato sulla Vos Thalassa e a quanto riportato nella sentenza del tribunale di Trapani, la sua figura sarebbe molto più ambigua

In una relazione dell’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati, riportata all’interno della sentenza, si legge: «Molti dei gruppi armati allineati al Gna (il governo di accordo nazionale guidato da Fayez al-Sarraj, risconosciuto a livello internazionale e con cui il governo italiano nel 2017 ha stipulato il Memorandum d’intesa, ndr) ricevono fondi statali e assumono funzioni di polizia, come l’esecuzione di arresti e detenzioni, rimanendo tuttavia privi di comando e supervisione di organi efficaci». Tra i gruppi armati foraggiati dal governo ma al contempo sfuggenti a un controllo dall’alto ci sarebbero dunque anche i Masked Men. «Proprio a una simile situazione fa riferimento la teste rivelando che la sua infernale detenzione prima della partenza era gestita dal tale Aymen», scrive il giudice Piero Grillo. Lo stesso chiarisce che l’avere minacciato l’equipaggio della Vos Thalassa, davanti alla possibilità di ritornare in Libia, non può essere considerata una reazione sproporzionata. «Appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse – conclude il giudice – una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’uomo».


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