La trovata della Lega alle ultime Regionali con i due fratelli Caputo (candidare il meno conosciuto Mario, ma cercare di confondere gli elettori indicando anche il nome del più noto Salvino) ha diversi precedenti. Escamotage per passare il testimone di parente in parente o per avere una spinta in più da parte del proprio politico di riferimento
Il candidato «detto…» l’abitudine politica degenerata Da Sabrina Figuccia detta Vincenzo, a Nuti detto Grillo
«Io so già la soluzione qual è: Caputo senza fotografia e Gianluca… non so come si chiama tuo figlio, detto Salvino. Punto e basta. È così. Funziona così». Così diceva l’allora senatore Alessandro Pagano a un Salvino Caputo in ansia per la propria incandidabilità alle elezioni regionali, proprio lui che all’Ars era stato eletto per quattro volte: una con Alleanza democratica, una con Alleanza nazionale e le ultime due tra le fila del Pdl. Questo emerge dalle intercettazioni che hanno portato agli arresti domiciliari il commissario provinciale di Noi con Salvini, accusato di voto di scambio e attentato contro i diritti politici del cittadino. Ed effettivamente è così che funziona, specie negli ultimi anni, da quando quella del detto, escamotage totalmente legale introdotto per evitare omonimie e rendere più facilmente identificabili i candidati, è diventato una sorta di pratica comune da una parte per fuggire dai refusi degli elettori, dall’altra per passare il testimone di padre in figlio, di parente in parente o addirittura per avere una spinta in più da parte del proprio politico di riferimento.
Alle recenti Regionali, alla fine il prescelto per la candidatura (nella lista Alleanza per la Sicilia – Nello Musumeci Presidente che univa candidati di Fratelli d’Italia e Noi con Salvini) è stato il fratello di Salvino Caputo, Mario, ma il copione è rimasto invariato: niente immagine e cognome a caratteri cubitali. È anche così che funziona. E lo sa bene la famiglia Figuccia, che alle ultime elezioni comunali di Palermo, lo scorso giugno, ha deciso di lanciare, dopo la giusta gavetta in circoscrizione, Sabrina, figlia di Angelo, consigliere comunale di lunga data pronto a tramandare la propria poltrona, e sorella di Vincenzo, ex consigliere ora deputato regionale. Il risultato? La dicitura ufficiale, approvata dalla commissione elettorale, recitava: «Figuccia Sabrina detta Angelo, detta Vincenzo». E ha portato bene per la candidata forzista, che adesso siede tra i banchi del gruppo misto in sala delle Lapidi. Chi di detto ferisce, tuttavia, di detto perisce. È così che il fratello di Sabrina, Vincenzo, lasciata Forza Italia, decide di candidarsi a Palazzo dei Normanni con l’Udc per divergenze di vedute con Gianfranco Micciché, che per tutta risposta candida tra le sue fila tale Onofrio Figuccia, ovviamente «detto Vincenzo». Cosa che tuttavia non impedirà al vero Vincenzo di essere primatista di preferenze e assicurarsi il suo posto all’Ars.
E sempre in tema di Comunali a Palermo, la commissione elettorale, alla fine si è trovata persino a dovere optare per il taglio dei troppi detto, lasciando che i candidati ne mantenessero solo due, per evitare che si esagerasse. È il caso del candidato sindaco Fabrizio Ferrandelli, che per andare sul sicuro si è aggiunto «detto Ferrarelli, detto Ferrantelli, detto Fernandelli, detto Fernandel, detto Ferrarello, detto Ferrarelle, detto Fernandello, detto Fabbrizio». Ferrandelli quanto meno proponeva variazioni sul tema di se stesso, cosa che non si può dire per il suo omonimo, Roberto Ferrandelli, candidato in Palermo prima di tutto, lista a sostegno del più famoso Fabrizio, da cui non ha esitato a prendere il nome e un paio di alternative nel cognome, presentandosi come «Ferrandelli Roberto detto Fabbri, Fabrizio, Robertino, Ferrandello, Ferrantelli, Ferrantello, Ferrarello, Fernandelli, Fernantelli». E se Roberto quanto meno giocava sull’omonimia, nell’ottava circoscrizione il candidato presidente Giuliano Forzinetti osava con un «detto Ferrandelli». Ma i casi del genere non si contano, dal Mov139 Fabrizio Ferrara detto Ferro, detto Marcianò, detto Garufi al forzista Federico Giuseppe detto Marchese, detto Teresi, detto Mascellino. E non fanno eccezione neanche i grillini, con il primo candidato sindaco di Palermo del M5S, Riccardo Nuti, che nel 2012 tentò la scalata a palazzo delle Aquile sfoggiando il suo «detto Grillo».
Andando ancora indietro nel tempo, era il 2006 quando le liste a sostegno del presidente uscente Totò Cuffaro per le Regionali a Palermo, Catania e Messina erano capitanate da Ester Cuffaro, neanche a dirlo «detta Totò». Stesso escamotage tentato da Giuseppa Cuffaro di Trapani, anche lei detta Totò. Un giochino che tuttavia non si rivelò particolarmente fruttuoso, vista la mancata elezione di entrambe.