Il documentario Morire a Lentini nasce da un'inchiesta della giornalista Natya Migliori ed è stato prodotto da Gemini Movie. Stasera verrà proiettato nella località del Siracusano per riaccendere l'attenzione sui danni causati dall'ambiente. In un periodo in cui a tenere banco è la discarica di Armicci
Lentini, doc sulle leucemie causate dall’inquinamento «La volta in cui cadde l’aereo con l’uranio impoverito»
Morire a Lentini. È il titolo del documentario che sarà proiettato questa sera a Lentini, nell’ambito di una mini-rassegna cinematografica promossa dal coordinamento No discarica Armicci. Due appuntamenti per sensibilizzare e informare la cittadinanza sulle problematiche connesse all’impatto ambientale delle discariche e non solo. Un viaggio nei luoghi dove si muore d’aria, quello che ha preso il via il 14 settembre con la proiezione del lungometraggio Una montagna di balle – dove vengono illustrati i retroscena che si celano dietro la questione dei rifiuti in Campania – e che riprende stasera, all’interno dell’arena Santa Croce, con il docufilm che indaga sulle cause delle alti percentuali di tumori e leucemie nel Lentinese, attraverso i racconti di chi ha perso amici e familiari.
Nato da una inchiesta scritta della giornalista Natya Migliori, pubblicata nel 2008 su Libera Informazione, il film è stato prodotto nel 2010 da Gemini Movie: «Ciò è stato possibile grazie all’appoggio professionale e tecnico del regista Giacomo Grasso – spiega a MeridioNews Natya – col quale ho realizzato altri lavori girati fra Roma e la Sicilia. A quello su Lentini abbiamo lavorato due anni, cercavamo testimonianze dirette ma pochissime persone si sono aperte con noi, addirittura c’era chi alla fine dell’intervista non ci firmava la liberatoria, la maggior parte aveva una gran remora, come se essere malati di leucemia fosse una vergogna – rivela la giornalista -. Uno dei pochi a raccontarci la sua storia fu Vincenzo Laezza, che avendo perso la figlia Manuela a causa della leucemia, creò un comitato per smuovere un po’ le acque».
Il riferimento è all’associazione dedicata a Manuela e Michele, due bimbi di otto e sette anni colpiti entrambi a breve distanza di tempo una dall’altro. «Laezza insieme all’avvocato Santi Terranova avviò una serie di indagini sul fenomeno dalle quali nacque pure una interrogazione parlamentare. Nella situazione di Lentini – sottolinea Migliori – incideva innanzitutto l’uso indiscriminato del territorio. A cominciare dalle discariche abusive che dagli anni ’80 comparvero in tutto il territorio e dietro le quali si scoprì un coinvolgimento netto del clan Ercolano Santapaola. Il professore Sciacca, chimico rinomato dell’università di Catania che allora era alle prime armi, una notte portò con sé il rilevatore per misurare la presenza di radioattività in una di quelle discariche e lo strumento impazzì».
L’inchiesta prende origine dagli studi dell’Asp di Siracusa dell’epoca, pubblicati sul registro territoriale di patologia, che evidenziavano come a Lentini il tasso di morti per leucemia fosse tre volte superiore al dato nazionale. «Questa cosa fece scattare tutti gli allarmi», aggiunge la giornalista, che racconta poi un altro episodio sul quale lo stesso avvocato Terranova tentò di fare chiarezza: «Nel 1984, in contrada Sabuci-San Demetrio, vicino al lago del Biviere, si verificò la caduta di un aereo di Sigonella che, secondo quanto venne dimostrato, era imbottito di bare di uranio impoverito nelle ali e nella coda che venivano usate comunemente in quel periodo come contrappeso. Nel momento in cui cadde sul suolo – continua – prese a fuoco e le fiamme sprigionarono dall’uranio delle particelle mortali che, come accertato, restano nell’atmosfera per anni e ricadono a terra attraverso la pioggia».
A occuparsi delle indagini furono all’epoca gli americani. Infatti, come ricorda Migliori, pare che agli atti dei carabinieri, arrivati sul posto, non esista nulla poiché la zona era già stata transennata e sorvegliata dai militari statunitensi, che non facevano avvicinare nessuno. Oggi, nel terreno in cui cadde l’aereo, c’è un dislivello di diversi metri. «Come se fosse stato scavato – conclude la giornalista, che ha avuto la possibilità di visitarlo -. E il paradosso sta nel fatto che poco sopra c’è una coltivazione di arance».