ARRIVA un catanese di successo

Quanti di noi non hanno desiderato almeno una volta di far parte del cosiddetto “mondo dello spettacolo”? Ebbene, lui ne fa parte. Giornalista, critico cinematografico, sceneggiatore, scrittore, autore teatrale e televisivo, ottimista, disponibile, cordiale e soprattutto un professionista, tutto questo è Filippo Arriva.

In quanto autore non si vede, non mostra quasi mai il suo volto, non sta davanti la telecamera, ma dietro. Il suo lavoro, però, può rendere un programma un successo o un flop. Curatore del Medialab della Facoltà di Lingue “Scrivere per la televisione”, abbiamo approfittato della sua presenza a Catania per intervistarlo.

Cerchiamo di conoscerlo meglio, ma anche di carpire pregi e difetti del suo mestiere, dando qualche suggerimento a quanti volessero lavorare in questo affascinante ma difficile mondo della comunicazione.
                                                                   
Come diventa giornalista? Quando e dove si è formato?
«Sono diventato giornalista all’inizio degli anni ‘70, giornalista iscritto all’albo dei giornalisti. In realtà, collaboravo con il giornale La Sicilia, già prima di laurearmi e facevo il critico cinematografico e poi, piano piano, mi sono laureato, mi sono specializzato, ecc. Siccome mi piaceva molto fare questo mestiere, fare il giornalista, cominciai ad intensificare la mia collaborazione con La Sicilia, a loro piaceva come scrivevo e man mano sono entrato. Prima sono diventato un giornalista, ho fatto inchieste di vario genere, dopodichè sono entrato in redazione e là è cominciata la mia carriera».

Come mai questa decisione, ad un certo punto, di mettere in qualche modo da parte il mestiere di giornalista, per dedicarsi a quello di scrittore?
«In realtà non ho mai messo da parte il mestiere del giornalista. Prima di tutto perché continuo a scrivere e secondo perché in realtà, il giornalista è uno che lavora con la parola, cioè racconta, racconta una storia, racconta storie. È un passante tra un fatto che accade e un lettore. E l’onestà intellettuale di un giornalista è quella di raccontare la storia non in modo obiettivo, perché l’obiettività non esiste, anzi, secondo me, non deve esistere perché non ha senso, ma di raccontarla in modo chiaro, che è diverso. Raccontare in modo chiaro si può fare anche in televisione, scrivendo un programma, oppure in teatro, scrivendo delle cose teatrali. A me piace raccontare e suscitare sentimenti, raccontare in modo semplice lineare, una trama, una storia, raccontare di persone. Tant’è che mi sono trovato molto bene a fare Novecento, perché raccontavo storie, di uomini, di persone, di cose vere. Cioè poteva esserci un divo cinematografico, o un fatto di cronaca, poteva essere una storia televisiva, le gemelle Kesler, però racconti storie e questa è la cosa più bella».

Quando ha iniziato a scrivere, prima di approdare alla televisione, il suo primo amore è stato il teatro, no?
«Sì, il mio primo amore è in realtà, come amore, il cinema. Perché io amo il cinema, mi sono formato sul cinema. Non scrivevo di cinema, però facendo il critico cinematografico, e avendo visto centinaia e centinaia di film, ho il cinema come formazione, come struttura, come forma narrativa. Dal cinema sono passato alla televisione, come immagine visiva, però come scrittura la prima cosa è stata il teatro, sì, ho fatto un testo teatrale».

Se fosse messo nella situazione di dover scegliere tra teatro e televisione, cosa sceglierebbe e perché?
«Teatro. Il teatro è più… non vorrei dire questa cosa per non essere frainteso. Il teatro è più… onesto, nel senso che ha una scena e lo spettatore è davanti all’attore che dice delle parole. La televisione è “disonesta” perché tra lo spettatore e l’immagine c’è il filtro di mille cose. Cioè non arriva subito. Citando Umberto Eco, “quando ti da un’immagine, non te la da per quello che è, ma te la da per il fatto che è là dentro”, e quindi piena di mille altri significati, mille altre sfumature. Perchè la televisione è ‘Vallettopoli’, perché è lo spot pubblicitario, perché è Vespa, perché è Baudo. Perché la televisione quando ti da un’immagine, non te la può dare pura, te la da sempre impura, anche nel senso bello del termine. Invece il teatro quando ti da una parola te la da pura, perché è quella e non c’è altro. Che poi sia una parola che abbia mille significati, però è pura, è quella».

Quali sono, secondo lei, le caratteristiche di un buon autore-scrittore?
«Io non so quali sono le caratteristiche. È come dire qual è il buon presentatore, poi alla fine viene Frassica e te lo smonta. Io posso dire semplicemente qual è la mia idea. Credo che sia quella di tentare di essere sempre onesti con se stessi, cercare di rispettare un equilibrio morale, mentale, professionale, che riceve batoste e colpi da tutti i lati. Cercare di far passare un’idea, che è la tua idea di programma. Io credo che la mia idea di scrittura è una scrittura che io chiamerei “umanistica”. C’è un grande rispetto per l’uomo, un grande rispetto per i suoi sentimenti, anche quelli più semplici. È vero che con questo ci gioco anche, perché è chiaro che mi piace, però è un grande rispetto per l’essere umano, per la sua cultura, per il suo essere. È un modo di scrivere poetico, in cui ci sono anche caratteristiche personali. La mia scrittura è malinconica, triste, un po’ pessimista, ma che ha l’ottimismo della ragione. Questa è la cosa più importante. Io credo nell’uomo fondamentalmente, lo rispetto perché so che si può salvare. Ed è questo che mi spinge a scrivere. La mia scrittura è la scrittura di chi deve fuggire, deve andare via. Io ho l’amarezza di chi è andato via, perché io amo questa città, amo questa terra. Sono convinto che chi va via comunque è uno sconfitto, anche quando raggiunge cose che vuole fare, come è accaduto a me. Perché devo dire che non mi posso lamentare, ho fatto quattro cose… mi sono divertito, su questo non posso dire nulla. Però sono uno sconfitto perché me ne sono andato. Sono stato costretto ad andare. Perché il cinema si fa in un altro posto, perché la televisione si fa in un altro posto, perché altre cose si fanno in altri posti».

Il crederci e la passione sono fondamentali per chi scrive per gli esseri umani…
«Io credo che bisogna essere testardi. Io sono stato testardo. Ho fatto la mia carriera senza mai una raccomandazione, mai. Io sono figlio di una casalinga e di un ragioniere che non conoscevano nessuno, eppure testardi. Mia madre mi ha educato ad essere testardo, a non fermarmi mai. La sua frase era: “Filippo, a nuatri nuddu n’arriarla nenti” ed è la frase giusta. Non ti regala niente nessuno, guadagnatelo».

Cosa consiglierebbe ad un ragazzo che volesse intraprendere questo mestiere?
«Non vorrei dire le solite banalità, comunque lavorare, studiare, leggere, guardare, vedere, avere un senso critico sulle cose, soprattutto leggere, studiare, leggere i giornali, i libri, cosa che si fa poco. Perché non è vero che non c’è tempo. Sì, nel mondo ci sono le raccomandazioni, però poi alla fine, un sacco di gente come me ha conquistato posti importanti, perché ha una qualità. C’è un momento in cui non ci si può non misurare, e a questo punto chi vale non può non andare avanti. Basta guardare qualsiasi cosa: alla fine, i raccomandati che fanno? Sì, è vero, se l’idea nostra è quella di avere uno stipendio, portare mille euro al mese a casa tranquillamente, senza problemi, è la cosa più facile di questo mondo, ma se si vuole un’altra cosa, allora bisogna impegnarsi. Io sono convinto che se c’è un valore, se si vale qualcosa, non ci sono dubbi, prima o poi devi per forza sfondare. Non sono i raccomandati che fanno la storia. Alla fine c’è sempre quella specie di punteggio d’Amburgo che tutti sappiamo, e si sa chi vale. Il problema è poi un altro. Che molte volte noi pensiamo di valere e invece…»


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