Appetiti trasversali sugli appalti della sanità. Le pressioni del maresciallo del Nas e i riferimenti a politici e uomini dei servizi

«Eravamo io, un maresciallo dei Nas e un partecipante alla gara». Nonostante, tra le tante intercettazioni e ammissioni raccolte dagli inquirenti, non manchino i momenti di ilarità, non si tratta dell’incipit di una barzelletta. A parlare è Fabio Damiani, il dirigente e manager pubblico arrestato nel 2020 per essere stato uno dei protagonisti dell’impressionante giro di corruzione che ha condizionato per anni gli appalti nella sanità siciliana. Dopo l’arresto, Damiani ha iniziato a collaborare con la procura di Palermo, riuscendo così a ottenere il riconoscimento della relativa attenuante in occasione del processo di primo grado, che gli è valso una condanna a più di sei anni, e dando al contempo la possibilità ai magistrati di chiudere il secondo filone dell’inchiesta Sorella Sanità. Sono undici le misure cautelari disposte dalla gip Clelia Maltese. Tra i destinatari anche Loreto Li Pomi, militare del Nucleo antisofisticazione e sanità di Palermo finito ai domiciliari.

Conosciuto come Lillo, il 59enne è accusato di avere esercitato pressioni su Damiani affinché una gara venisse aggiudicata a favore di una ditta che avrebbe avuto accordi con la Generay di Massimiliano D’Aleo, persona vicina al carabiniere. «Li Pomi attuava un atteggiamento pressante e intimidatorio nei confronti di Damiani, certamente diretto e idoneo ad alterare lo svolgimento e soprattutto il risultato della gara», si legge nell’ordinanza di custodia cautelare. La procedura a cui il maresciallo del Nas sarebbe stato interessato è quella riguardante la manutenzione delle apparecchiature elettromedicali. Appalto già al centro dell’indagine del 2020, e andato a favore della Tecnologie Sanitarie in virtù di un accordo stipulato dai vertici della società con lo stesso Damiani e Salvatore Manganaro. Quest’ultimo è il faccendiere dalle cui mani, telefonini e agende cartacee sarebbe passata l’intera rete corruttiva che ha inquinato prima le attività dell’Asp 6 di Palermo e poi quelle della Centrale unica di committenza della Regione, nel momento in cui ai vertici della stessa è stato posto Damiani.

Stando al racconto fatto dal dirigente ai magistrati, Li Pomi lo avrebbe avvicinato, prima suggerendogli di stare alla larga dal faccendiere – «disse che erano arrivate delle lettere anonime sul mio conto e su Manganaro» – e poi presentandogli D’Aleo. «Mi disse che era un suo carissimo amico, che ci teneva molto a lui, che era una persona perbene, insomma tutte queste frasi diciamo un po’ di circostanza – si legge in uno dei verbali di Damiani – Poi andammo subito al dunque, perché D’Aleo mi disse che alla gara a cui aveva partecipato HC (non coinvolta nell’indagine, ndr), lui aveva degli accordi commerciali, se non ricordo male o di subappalto o comunque di manutenzione». I tre si incontrano anche in un bar al centro di Palermo, dove Damiani viene omaggiato con una cassata.

Le pressioni, tuttavia, non sarebbero servite e questo perché a bussare alla porta di Damiani, per il tramite di Manganaro, sarebbero stati tantissimi. Rapporti che avrebbero garantito guadagni illeciti a tanti zeri. Un esempio? Per assicurarsi l’appalto da oltre undici milioni di euro, indetto dall’Asp 6 di Palermo per la realizzazione e gestione del sistema informativo, Luigi Giannazzo, amministratore della società Dedalus Italia, avrebbe concordato una tangente del valore di 700mila euro. I rapporti con Giannazzo, indicato da Damiani come persona vicina alla famiglia Manganaro, sarebbero andati avanti fino alla fine dell’appalto senza particolari problemi. Tuttavia, in vista della futura gara da indire, lo stesso Manganaro avrebbe suggerito al dirigente pubblico di valutare la possibilità di attendere prima di garantire alla Dedalus Italia una nuova aggiudicazione. «Ci diamo tutti più tempo – dice il faccendiere a Damiani – facciamo finta di seguire lui al cento per cento ma nel mentre abbiamo tempo di avere un altro cavallo».

Attorno alle vicende che hanno visto protagonisti Damiani e Manganaro si sarebbero mossi personaggi provenienti da diversi mondi. Nell’ordinanza si fa il nome anche dell’ex parlamentare nazionale Dore Misuraca (non indagato), che – stando a quanto raccontato da Damiani ai magistrati – avrebbe esercitato pressioni per condizionare, senza successo, la gara riguardante il servizio di gestione dei pazienti in insufficienza respiratoria cronica e per questo in trattamento con ossigenoterapia domiciliare. In un altro caso, si fa riferimento a un intervento da parte di soggetti appartenenti «ai servizi» che avrebbero informato l’imprenditore Giannazzo di essere sotto indagine. «Siamo tutti sotto controllo. Microspie a casa», si legge in uno degli appunti di Manganaro dedicato ai rapporti con l’imprenditore di Dedalus Italia. Lo stesso faccendiere, secondo la gip, avrebbe annotato la necessità di congelare le tangenti, ma soltanto temporaneamente: «Per questo ho dovuto fermare $… ma a fine ottobre ricominciamo».

Tra gli accorgimenti presi per mascherare i rapporti corruttivi, ci sarebbe stato l’uso di società di comodo – in alcuni casi, come per Greensolutions, riconducibili direttamente a Manganaro – per sovrafatturare servizi resi formalmente alle imprese aggiudicatarie degli appalti pubblici. Le cautele, tuttavia, non avrebbero evitato i momenti di agitazione. Come quando, a inizio settembre 2016, Damiani trascorre due giorni in un hotel di lusso sul lago di Como. Il soggiorno costa novemila euro, una cifra decisamente importante anche per chi ha uno stipendio da manager della sanità può associare le prebende derivanti dalla corruzione. Stando agli accordi, Damiani avrebbe dovuto pagare poco più di duemila mentre il resto sarebbe spettato alla Vivisol, società interessata alla gara relativo alla ossigenoterapia. Qualcosa, però, non va per il verso giusto e l’intero importo viene addebitato sulla carta di Damiani. A quel punto Manganaro si sarebbe attivato per correggere l’errore, creando le condizioni per fare stornare all’albergo la somma in eccesso versata dal manager disponendo che a pagarla fossero gli imprenditori. Il piano, però, non convince Damiani che teme di poter attirare sospetti su di sé, nel caso di controlli da parte delle forze dell’ordine. «Al limite meglio spiegare che ho fatto una follia, mia moglie, ho speso novemila euro per una serata, ma li ho usciti io, dai miei soldi», commenta parlando con Manganaro. La giudice riporta però anche quello che sembrerebbe essere stato un piano b proposto dallo stesso manager: «Damiani suggeriva di lasciare immutato il pagamento originario e di farsi restituire le somme dovutegli in contanti tramite Manganaro».


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