Appalti truccati, l’intolleranza verso chi non voleva piegarsi Tra pressioni e vendette: «Dobbiamo essere no cattivi, di più»

«Forse quei discorsi che gli abbiamo fatto lo hanno infastidito, ma basta dire di no…dico, non è che uno gli punta la pistola». Minimizza così il geologo Antonino Casella, parlando con l’ingegnere Claudio Monte e il rup Franco Barberi. Tutti e tre coinvolti nell’indagine che ha scoperchiato il vaso di Pandora su un giro di tangenti e rimborsi all’ombra del Provveditorato delle opere pubbliche di Sicilia e Calabria. È il 22 settembre 2017 e le discussioni tra vertono da mesi sempre sullo stesso argomento. Anzi, sulla stessa persona, una di cui temono di non potersi più fidare. «Ci ha preso come dilettanti, questo è! Chistu un sapia comu farmi cantare – lamenta Monte, intercettato -. Questo è cretino! Questo è scemo, proprio infame, sai gli infamoni quelli proprio confidenti della questura, infamone vero». Uno sfogo, il suo, che è un crescendo di rabbia, tutta indirizzata ad un unico mittente: quel nuovo imprenditore che avrebbero cercato di corteggiare e far entrare nel giro. Un imprenditore che, a suo dire, avrebbe cambiato atteggiamento repentinamente passando dall’essere disponibile all’essere più scucivolo, nascondendo qualcosa.

Qualcosa che potrebbe anche far saltare all’aria il presunto giro illecito messo in piedi negli anni nell’ambito degli appalti di lavori in strutture pubbliche, dalle scuole alle caserme. «Perché noi possiamo pure girare la frittata e dire che ce l’ha proposto lui la prima volta – suggerisce tre mesi dopo Monte, tornando ancora sull’argomento. Ci dissimu chisto perché lui ci ha detto di fare questa cosa. E noi abbiamo detto no, però abbiamo cambiato idea e iddu accuminciò a fare come un pazzo, cominciò a scrivere tutte queste note». Monte in effetti c’ha visto giusto. Non sa, però, che quel nuovo imprenditore tanto difficile da sedurre ha già denunciato tutto agli inquirenti. L’uomo, che dall’anno prima si occupa dei lavori di manutenzione della scuola primaria di Casteldaccia, racconta infatti agli investigatori che «mentre eravamo in cantiere per vedere l’andamento dei lavori, mi hanno informato che è prassi del loro ufficio richiedere il 2 o il 3 per cento sui lavori alle imprese che li eseguono». Che nel caso di quelli alla scuola di Casteldaccia ammontano sui cinquemila euro, all’inizio, rispetto a una somma complessiva dei lavori stimata intorno ai 250mila. Una prassi, insomma. O ci stai o non ci stai.

L’importo richiesto da Monte e Casella sarebbe aumentato nel giro di poco, in virtù della maggiore disponibilità economica garantita loro dalla perizia di variante presentata: da una iniziale richiesta di cinquemila euro si è passati a seimila e 500, sino ad arrivare, prima della retromarcia finale, a ottomila euro. Tanto che alla fine Monte aveva assicurato all’imprenditore che anche lui avrebbe potuto guadagnare qualcosina: «Ora viene otto, ce n’è pure per lei giustamente». Fino all’inaspettato irrigidimento palesato dall’imprenditore, però, che a un certo punto inizia a mettere in allerta Monte e Casella, che il giorno successivo infatti ritirano la proposta. «Io ho lasciato, diciamo, le cose per come sono per ora – racconta l’imprenditore -, mi sono riservato di pensarci». La tattica, almeno all’inizio, è quindi quella di temporeggiare. Capito subito che la situazione potrebbe prendere una piega inaspettata e ambigua, l’uomo teme di tirarsi bruscamente indietro e cerca di capire fino a che punto si spingeranno quelle iniziali richieste. Raccogliendo, nel frattempo, non poche informazioni proprio su Monte, all’epoca direttore dei lavori, e su Casella, direttore operativo e cofirmatario del progetto esecutivo.

Quei due di cui l’inchiesta restituisce oggi un ritratto dominato da spregiudicatezza e scaltrezza, quello di «due soggetti avvezzi a non interloquire mai apertamente con gli imprenditori di promesse e/o di dazioni illecite di denaro o altre utilità, i quali ben presto hanno iniziato a sospettare che l’imprenditore, con il suo modo di fare leggero e l’insistenza nel sottolineare cifre e soggetti interessati all’accordo illecito, potesse essere una spia che stava registrando le loro conversazioni». È una paura che si fa presto paranoia, in effetti, da quello che raccontano oggi anche le conversazioni intercettate. «Un parrari assaiquesto è sicuro cento per cento che registrava. Tutto, dal primo giorno, chistu parlava e non ti guardava, sempre di chisti ta scantari, un infamuni», non la finisce di ripetere Monte. Tutti sospetti che nel tempo lo avrebbero costretto a contromisure per tentare di difendersi da eventuali accuse, quelle che il blitz di oggi ha trasformato in un pesantissimo macigno. Ma già all’indomani della ricezione dell’avviso di proroga delle indagini preliminari, a dicembre del 2016, i sodali del gruppo criminale avrebbero discusso tra loro della necessità di cancellare definitivamente prove compromettenti memorizzate sul computer sovrascrivendo sui relativi file, concordando anche una versione comune da raccontare agli inquirenti, in caso di interrogatorio.

Arrivano addirittura a darsi un «rigoroso codice di comportamento», per citare le carte dell’indagine, attuato in maniera costante. «Evitavano di discutere apertamente di argomenti illeciti e saggiavano in via preventiva la disponibilità dell’imprenditore, indirizzando i suoi comportamenti con mezze parole e, più in generale, con un sistema di comunicazione tacita». Approcciarsi a un imprenditore nuovo, e quindi ancora fuori dal giro come quello che alla fine li ha denunciati, comportava quindi una certa cautela da parte loro, valutando progressivamente la reazione della persona avvicinata. Nel caso di Monte e Casella, ad esempio, l’inchiesta racconta un approccio morbido da parte loro, che tendeva a evitare forme di pressione psicologica. Prendendo, infine, le distanze da chi non sembrava incline a piegarsi al patto. Ma «anche mantenere le distanze non è sempre semplice», fa notare Barberi a Monte, che replica secco: «Non è servito perché quando uno è infame è infame». E se alzare i tacchi e girare le spalle non basta, quando un nuovo affare non va in porto, si pensa ad altre soluzioni. Come la vendetta, ad esempio.

«Appena ripigliate i lavori dobbiamo essere no cattivi, di più», suggeriva Barberi appena tre mesi fa, tirando di nuovo in ballo il progetto della scuola di Casteldaccia. «Ci vado, mi sto là, ci controllo puru i pila ru culu, ci misuru…Anche i caschi, elmetti, appena arriva qualche materiale che non va, proprio..cioè Caino – è la risposta pronta di Monte -. Minchia questo canciò atteggiamento subito». Sembra che vogliano dare all’imprenditore traditore «quello che si merita». Magari denunciandolo a loro volta, sperando di demolirne la credibilità di fronte agli investigatori: «Per furto – suggerisce Casella -, minchia lo consumiamo, ha quest’aria da testa di cazzo…». Convinti di fargli pagare quella sua anima in un certo senso incorruttibile, da «Gesù calato in terra». Ma sembra che abbiano fatto male i loro conti.


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