Antiracket, stretta sui requisiti di accesso al fondo regionale «Così si torna a dare credibilità a un movimento infangato»

Parte dalla Sicilia la stretta sulle associazioni antiracket, per provare ad arginare quell’impegno di facciata che, in barba ai troppi sacrifici umani pagati nell’Isola, ha costruito carriere all’ombra dell’antimafia di comodo. Nel giorno del 26esimo anniversario della strage di via D’Amelio, le associazioni antiracket tornano a farsi sentire, rivendicando il «lavoro serio che in tanti portano avanti con gratuità nei territori, lontano dai riflettori» e festeggiando per la norma, promossa dalle stesse associazioni e approvata nel testo collegato alla Finanziaria regionale, che istituisce paletti più severi per l’accesso al fondo antiracket della Regione. 

Dopo il caso Saguto, lo scandalo Montante e l’inchiesta Labisi, ecco che quelle maglie troppo larghe nella definizione di antiracket, istituite con un decreto del Ministero dell’Interno nel 2007 (poi rivisto solo parzialmente), vengono ridimensionate un’altra volta. La legge è stata promossa proprio da chi lavora quotidianamente al fianco degli imprenditori taglieggiati e ha chiesto con forza che fossero indicati nuovi vincoli nell’accesso ai contributi messi a disposizione dalla Regione. 

La norma pubblicata in Gazzetta ufficiale lo scorso 13 luglio prevede non soltanto che le associazioni siano iscritte agli albi delle Prefetture, ma anche che non ricevano altri contributi da Enti locali, che abbiano un numero minimo di 10 soci, di cui almeno il 50 per cento imprenditori o commercianti che abbiano subito comprovate vicende di estorsione e/o che si siano avvicinati all’associazione antiestorsione per averne assistenza e sostegno, che dimostrino di essersi costituiti parte civile in almeno un procedimento riguardante un proprio assistito nell’ultimo anno. 

E ancora, le associazioni per accedere al fondo, che quest’anno ammonta a circa 450mila euro, dovranno dimostrare di aver presentato nell’ultimo anno almeno un’istanza di accesso al fondo per vittime di estorsione; di aver assistito imprenditori o commercianti e accompagnandoli alla denuncia, nell’anno precedente, in almeno tre fatti estorsivi conclusi con rinvio a giudizio. Non ultimo, le associazioni devono aver fatto attività di sensibilizzazione con le associazioni di categoria di commercianti e imprenditori; o aver promosso campagne educative nelle scuole.

«È una cosa molto bella – ammette Nicola Grassi, presidente dell’associazione Antiestorsione di Catania – che la proposta normativa, poi approvata dall’Ars, sia venuta proprio dal nostro mondo, sotto attacco per via delle inchieste giudiziarie. Penso che in questo modo si dia una risposta molto netta, che marca le differenze tra chi ci crede davvero e chi invece ha usato i percorsi antimafia per scopi personali».

Le associazioni, naturalmente, si augurano che questo sia soltanto l’inizio e che le maglie stringenti istituite in Sicilia possano fare da volano per una proposta normativa a livello nazionale, capace di frenare in tutta la Penisola il proliferare di associazioni sedicenti antiracket. «Anni fa – racconta ancora Grassi – ci siamo accorti che rispetto al fiorire di associazioni antiracket, dovute ai fondi messi a disposizione dal Pon sicurezza per aprire sportelli antiracket, le denunce non aumentavano affatto. Sembravano più contentini che venivano dati spesso a pioggia. È per questo che abbiamo cominciato a fare una battaglia, affinché il movimento antiracket tornasse a ciò che era in origine, cioè un’autodeterminazione di commercianti e imprenditori coraggio che come Libero Grassi sostenevano i colleghi in un percorso di emancipazione personale dalla morsa del pizzo e dell’usura, che è un percorso lungo e pesante. Anche le indagini giudiziarie hanno portato alla luce la verità di associazioni, iscritte agli albi delle Prefetture, che accedevano ai fondi per cosa? Per pagare la segretaria o l’affitto della sede prestigiosa? Ancora adesso sinceramente mi chiedo se abbiano mai restituito i fondi ottenuti, una volta che sono state cancellate dagli Albi prefettizi».

Secondo Grassi c’è «un tema di credibilità, per ridare dignità a un intero movimento antimafia infangato da chi ha finto di interessarsi alla lotta alla mafia soltanto perché lì ha intravisto un nuovo centro di potere. In realtà l’antimafia non è solo quello. E non parlo soltanto della nostra associazione perché ce ne sono tante altre che danno un aiuto sincero. Qui quando squilla il telefono e chiedono un appuntamento, sappiamo già che sarà sempre un incontro molto intenso, molto pesante, soprattutto la prima volta. Oggi portiamo a casa un risultato importante, ma non ci fermiamo a quello. Non ci fermeremo fino a quando anche a livello nazionale non verranno riconosciuti criteri più stringenti per poter definire cosa è antimafia». E cosa, invece, non lo è.

Miriam Di Peri

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