Alla ricerca del cambio perduto – Settima parte: la crisi che arriva dall’America

Se il comune denominatore tra tutte le crisi dell’ultimo secolo è l’instabilità finanziaria si capisce come alcuni economisti abbiano definito la 2008 come Minsky moment (a destra nella foto l’economista Hyman Minsky).

Ciononostante sono diverse le interpretazioni della crisi. Proveremo ad accennarne alcune per poi suggerire quella che, a nostro avviso, è più vicina alla realtà.

1. L’interpretazione marxista. Secondo Marx il capitalismo entra periodicamente in crisi a causa di una tendenza alla diminuzione dei profitti dei capitalisti. In pratica il profitto del capitalista è costituito principalmente dallo sfruttamento dei lavoratori ai quali viene prelevato il cosiddetto “plusvalore”, ovvero la parte di valore creato in più rispetto al salario che serve al lavoratore per sopravvivere. Quando il progresso tecnologico migliora la produttività nelle imprese per via del maggiore intervento delle macchine in sostituzione dell’uomo, accade che il suddetto plusvalore (o “saggio di sfruttamento”) diminuisca.

I capitalisti saranno quindi costretti a cercare sempre nuovi strumenti per controbilanciare la tendenza descritta. Il fenomeno della “finanziarizzazione dell’economia” tipico dell’intero ‘900 andrebbe in questa direzione. Ma l’effetto “perverso” è la “crisi di sovrapproduzione”: i beni prodotti non trovano più un mercato di sbocco e le merci rimangono nei magazzini.

2. L’interpretazione post keynesiana. Coerente con la tesi della sovrapproduzione, i post keynesiani sostengono appunto che la crisi è dovuta ad un calo della domanda. Ma questa sarebbe causata dalle politiche “pro cicliche” di austerità che sono state imposte ai paesi del sud Europa i quali hanno accumulato eccessivi debiti privati nei confronti di operatori economici e banche estere che avevano maggiore liquidità (analizzeremo più avanti l’analisi post keynesiana, che si ritiene quella che si avvicina di più alla realtà).

Queste sono le tesi “eterodosse” cosiddette perché in contrapposizione con la visione dominante della crisi attuale, posizione che è molto vicina al pensiero “mainstream” e che oggi viene studiato in tutte le università del mondo.

3. Il pensiero mainstream. I giornali, i politici, i professori e la maggior parte dei commentatori economici infatti, ci offrono un’interpretazione della crisi tendente a sostenere il ruolo equilibratore del libero mercato nell’economia e in contrapposizione al deleterio, ritenuto tale, intervento governativo. Rimanendo in ambito liberista, l’aumento del debito pubblico e dell’intervento dello Stato nell’economia causerebbe un sistema rigido e di sprechi che non permetterebbe lo sviluppo di quelle forze produttive capaci di tirar fuori dalla stagnazione le economie oggi in difficoltà. Ecco che in Italia si svilupperebbe, grazie al legame politico di tutti i partiti alle scuole economiche che propugnano il libero mercato, quella serie di ricette che tenderebbero ad eliminare l’intervento statuale attraverso la riduzione della spesa pubblica considerata improduttiva, attraverso le riforme sulla rigidità del mercato del lavoro e attraverso la cessione degli assets pubblici per recuperare efficienza e risorse finanziarie.

Dalla lettura dei dati macroeconomici e delle statistiche che riguardano le crisi passate e attuali però, sembrerebbe che le interpretazioni di tipo eterodosso, cioè quelle critiche nei confronti delle scuole dominanti, ci offrano migliori strumenti di analisi on in ogni caso sembrano più aderenti alla realtà.

Tutti comunque sono d’accordo che la scintilla scatenante la congiuntura europea, come spesso è accaduto durante tutto il 900, provenga dagli Stati Uniti d’America.

La crisi dei subprime degli U.S.A., che nel 2007 ha prodotto il fallimento di diversi istituti finanziari di grandi dimensioni, rappresenta il momento finale di un processo che inizia dagli anni 80 e che Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi hanno definito “capital asset inflation”, ovvero quel processo di eccessiva finanziarizzazione dell’economia dovuta alla sovracapitalizzazione delle imprese produttive. L’esagerato utilizzo dei fondi pensione e dei fondi istituzionali (quindi anche lo spostamento del risparmio dei lavoratori verso la finanza) “ha consentito alle imprese non finanziarie di emettere azioni a condizioni sempre più convenienti, mentre il rendimento delle ‘attività-capitale’ era sempre più riconducibile alla componente di guadagno speculativo. (…) Vista la convenienza di espandere l’investimento finanziario più di quello reale, si emettevano titoli di proprietà in eccesso rispetto ai propri bisogni industriali e commerciali, e il capitale di lungo termine così raccolto veniva investito in attività finanziarie con un orizzonte di cortotermine. Paradossalmente, queste emissioni venivano poi ricomprate dalle stesse imprese (corporate buy back). L’interesse dei gestori di fondi alle rendite finanziarie e alla valorizzazione azionaria si è fuso con l’interesse del management imprenditoriale, attirato dai nuovi meccanismi di remunerazione. Di qui la spettacolare ondata di fusioni e acquisizioni e le selvagge ristrutturazioni delle imprese.” (1)

Focalizzando sulla crisi del 2007, il fenomeno dei subprime rappresenta ancora una volta la manifestazione dell’instabilità di un sistema basato sulla dollarizzazione mondiale. Come abbiamo visto nella terza puntata trattando il dilemma di Triffin, gli U.S.A. costituiscono un sistema basato su un mezzo di pagamento utilizzato in tutto il mondo. In un commercio mondiale che utilizza quindi la valuta americana, chi realizza surplus in dollari ovviamente li investirà negli Stati Uniti, alimentando la crescita dei consumi statunitensi (2). La liquidità che proviene dal resto del mondo favorisce quindi un accesso facile al credito. Ecco che le banche statunitensi tra il 2000 e il 2007 sono state molto propense a concedere credito soprattutto nel settore immobiliare. Quando le famiglie americane si sono ritrovate insolventi la bolla immobiliare è scoppiata e sono crollati i valori dei sottostanti ai derivati dei subprime ormai nei bilanci degli istituti finanziari di tutto il mondo.

La crisi dei subprime pertanto ha causato uno stop dei capitali provenienti dal centro-nord Europa. Le maggiori banche, che grazie alla rigidità del cambio (Euro) e alla deregolamentazione della circolazione dei capitali avevano prestato facilmente ai paesi oggi in crisi (P.I.I.G.S.) e di conseguenza accumulato crediti nei confronti degli stessi, sono state costrette a ripianare le perdite dovute ai titoli tossici ritirando liquidità precedentemente immessa nel circuito interbancario. La chiusura del rubinetto del credito ha scoperto il nervo dell’indebitamento estero dei paesi del sud Europa verso il centro-nord e ha reso tali economie a rischio insolvenza. I governi sono stati costretti ad intervenire per evitare il collasso del sistema bancario, delle imprese e delle famiglie, perciò il debito pubblico è cresciuto, facendo salire così gli spread e il rischio default. (7- continua. Puoi trovare le prime sei puntate qui e in calce)

Note:

  1. Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi in “La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica” – numeri 3 e 4 della rivista Critica marxista.
  2. Per approfondire il tema del dilemma di Triffin: Alberto Bagnai – “Crisi finanziaria e governo dell’economia” per www.costituzionalismo.it
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