I medici ritengono che Biagio Di Grazia non sia più in pericolo di vita. Intanto si lavora per capire cosa è accaduto in uno dei cortili del quartiere, dove convivono gli interessi dei Santapaola e dei Cappello. Gruppi a cui, in tempi diversi, la vittima si è accostato
Agguato Monte Po, migliorano condizioni dell’uomo ferito Indagini su doppio binario: tensioni tra clan o sfera privata
Biagio Di Grazia non è più in pericolo di vita. L’uomo, colpito al collo da un proiettile la notte tra il 7 e l’8 aprile nel popoloso quartiere di Monte Po, da qualche giorno non ha più bisogno della ventilazione meccanica e i medici dell’ospedale, dove resta ricoverato in rianimazione, ritengono che il peggio sia passato. Ciò che invece deve essere ancora ricostruito è il movente dell’agguato, compiuto in una delle zone della città a più alta densità mafiosa. Roccaforte condivisa dai Santapaola-Ercolano e dal clan Cappello. Ed è proprio ai due gruppi criminali che Di Grazia, che oggi ha 52 anni, si è accostato nel corso della propria vita. Un passaggio, quello dalla famiglia etnea di Cosa nostra alla cosca che ha in Massimiliano Salvo il capo, che a Monte Po negli anni Duemila ha interessato più di uno. A partire da quel Mario Strano, a cui Di Grazia sarebbe stato vicino, finito l’anno scorso tra gli arrestati di un blitz a cui non per caso fu dato il nome Camaleonte.
Nel cortile in cui si affaccia uno dei palazzi a quattro piani in cui vive, l’atmosfera è tranquilla. Così come Di Grazia potrebbe avere creduto fosse nella notte in cui invece qualcuno lo ha sorpreso a pochi passi dal portone e ha aperto il fuoco. A lavorare sul caso sono gli uomini della Squadra mobile. Al momento gli investigatori sono orientati a non escludere alcuna pista: dal gesto inserito all’interno di tensioni tra i clan al tentato omicidio legato alla sfera privata. Di Grazia, d’altronde, non ha mai avuto un curriculum criminale di primo piano. Nella sua fedina penale ci sono perlopiù reati contro il patrimonio, e quando si fa il suo nome c’è chi ripensa al furto, ormai lontano nel tempo, di un’autoradio nei pressi di una discoteca. A schermirsi da accuse più pesanti in passato è stato lo stesso Di Grazia: «Ho sempre lavorato e vissuto a Monte Po e per questo sono noto nel quartiere – si legge in un verbale di udienza di oltre un decennio fa – È vero che ho commeso reati, ma si tratta di fatti di poco conto».
A pensarla diversamente sono stati negli anni magistrati e giudici. Per i quali, la contiguità del 52enne con la criminalità organizzata non è stata in discussione. Nel 2009, Di Grazia è stato condannato in primo grado del processo Plutone. Il procedimento si svolse con rito abbreviato e il gup Antonio Caruso quantificò in quattro anni e otto mesi la pena per l’allora 40enne. Era l’epoca in cui Di Grazia era considerato un elemento di «media importanza» del gruppo dei Santapaola attivo a Monte Po. A riconoscerlo erano stati diversi collaboratori di giustizia. Sebastiano Zanti lo collegò per vincoli di parentela a Franco Di Grazia, elemento di spicco dei Santapaola a Monte Po e molto vicino ad Aurelio Quattroluni. Conoscuto come Francu u ‘spasciu, Di Grazia, 54 anni e detenuto, a febbraio dell’anno passato è finito nell’inchiesta Thor che ha fatto luce su una lunga serie di omicidi commessi tra fine anni Ottanta e anni Duemila nel Catanese. «Era affiliato, faceva rapine ed estorsione», dichiarò Zanti parlando di Biagio Di Grazia. Meno titolato del cugino Franco, ma non al punto da non non avere diritto allo «stipendio» per i servizi resi al clan.
A Carmelo Sortino, collaboratore di giustizia ed ex esponente della famiglia catanese di Cosa nostra, quando gli fu mostrata la foto segnaletica di Di Grazia, venne in mente un aneddoto. «La foto raffigura tale Biagio, persona presentatami da Alfio Mirabile nel febbraio 2003 al chiosco di Monte Po. Mi disse che si trattava di un ragazzo dei nostri», è il ricordo di Sortino. A inizio nuovo millennio Alfio Mirabile, deceduto nel 2010, è stato reggente dei Santapaola per volontà del cognato Nino, il fratello di Nitto. Una promozione da cui scaturirono non pochi malumori e che gli causò anche un attentato pianificato all’interno della stessa famiglia mafiosa. Un terzo collaboratore di giustizia, Antonio Pelleriti, pur dichiarandosi di non essere in grado di affermare che Biagio Di Grazia fosse organico ai Santapaola, ha confermato l’assidua frequentazione di «persone che facevano parte del gruppo di Monte Po».
In tempi più recenti, come detto, il 52enne è stato ritenuto contiguo al clan Cappello. Per gli investigatori più che un passaggio si è trattato di un riposizionamento, all’interno di dinamiche criminali che oggi sono più liquide rispetto al passato. Ad allungare i sospetti sull’ingresso nell’orbita del boss Massimiliano Salvo è stato un appunto della Direzione investigativa antimafia che, nell’autunno del 2015, mentre monitoravano un’autorimessa di viale Mario Rapisardi, per controllare gli accessi in quello che era di fatto la base logistica usata dal boss, notarono un soggetto corpulento prendersi cura dell’auto lasciata da una donna. Quell’uomo era Biagio Di Grazia.