Aci Castello, i cinquant’anni della storica pizzeria «La faccia tosta di mettere Ai cessi nell’insegna»

«Sono ancora un po’ stordita». Giuseppa Bonaccorso, la signora Pina, si commuove quando pensa alle centinaia di persone che ieri, ad Aci Castello, hanno partecipato ai festeggiamenti per i cinquant’anni della pizzeria Jonica. Un’istituzione tra i locali del Catanese, famosa più che per il nome per il soprannome: per i cittadini etnei è semplicemente «Ai cessi». «La storia deriva dal posto dove eravamo prima – dice la titolare – In via Cannizzaro c’erano i bagni pubblici e noi eravamo lì vicino. Quindi la gente, per venire a mangiare la pizza, si dava appuntamento davanti ai cessi». Un punto di riferimento che è rimasto e che lei ha avuto «la faccia tosta di mettere nell’insegna, quando ci siamo trasferiti. L’ho messo sotto e piccolo, però c’è».

Una storia che parte nel 1966, quando Pina aveva 13 anni e sua madre voleva aprire un’attività sua. All’inizio era una gastronomia specializzata nei polli arrosto, poi è arrivata l’ispirazione per fare le pizze. «Mia mamma ha convinto mio padre, che faceva il camionista, a imbarcarsi in questa avventura che dura ancora oggi», racconta la donna. All’epoca lei – che adesso ha 63 anni – era una ragazzina che frequentava la scuola: «Ho fatto la terza media e poi non ci sono andata più, perché erano tempi diversi e queste cose ancora capitavano». Alle 11 del mattino, tutti i giorni, sua madre preparava il pane in pasta per le pizze da servire la sera. «Non l’ha mai voluto insegnare a nessuno – prosegue – i pizzaioli non hanno mai toccato l’impasto». E anche adesso, dopo mezzo secolo, funziona allo stesso modo.

L’unico ad aver avuto il permesso di imparare è stato il marito di Pina, sposato a trent’anni. «Lui lavorava alla Montedison, aveva un posto sicuro – ricorda Pina Bonaccorso – Io gli ho chiesto di lasciarlo per venire da me e continuare la pizzeria. Lui lo ha fatto». E ha mantenuto la tradizione di famiglia. «Mia madre era una grandissima lavoratrice e io ho seguito la strada sua e di mio papà. Sono orgogliosa di quello che ho e di cosa ho ottenuto lavorando onestamente – aggiunge – Sono fiera di tutto: non sono ricca e ho dei dipendenti, ho fatto una vita di sacrifici però ho avuto tante soddisfazioni». A partire da quella più importante: «Fare lavorare altre persone. I miei collaboratori sono tutti bravi e io, che sono figlia di operaio, so cosa vuol dire fare un lavoro duro e sono come loro».

«Loro è come se fossero figli miei, siamo la stessa cosa», aggiunge. Per questo quando c’è da stringere i denti, per esempio per la crisi, li stringono tutti insieme. «Questo inverno è stato difficile, ma ci siamo spaccati la schiena tutti per restare quelli che siamo». Cioè sei persone fisse più i collaboratori che si aggiungono nel periodo estivo, quando il lavoro è di più e la piazzetta di fronte alla bottega si riempie di tavoli. «Mi ricordo benissimo quando dovevo scegliere il nome del locale: “Come la chiamiamo?”, mi hanno chiesto mia madre e mio padre. “Chiamiamola Jonica, visto che siamo vicini al mare“, ho risposto io che ero una bambina». E da quel giorno non se n’è più andata. «Ho fatto domanda per la pensione ma non ci voglio andare, non voglio abbandonare le persone con cui lavoro – conclude la signora Pina – Ho difeso questo locale come fosse una mia creatura e mi sono tuffata nel lavoro nei momenti più difficili della mia vita. E ieri, quando ho visto tutta quella gente, mi sono detta: “Ma quindi io sono diventata veramente un’imprenditrice?”. Però poi mi sono vergognata, perché mi hanno insegnato a essere umile».

Luisa Santangelo

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