A piazza Verdi storie di vittime di Cosa nostra «Girarci dall’altra parte ci rende tutti mafiosi»

«È giusto quello che hanno fatto a te, Peppino? Che ti hanno legato, incaprettato e fatto a pezzi come carne da macello? Io non voglio finire così, me ne vuoi fare una colpa? È la paura che mi fa dire queste cose. La paura di essere veramente me stessa, di essere riconosciuta in mezzo a un mucchio di gente. A volte preferirei essere invisibile. Ma è questa la mafia. Quella sensazione che ti paralizza e che ti costringe a restare lì, fermo, immobile, senza reagire. Quella sensazione che ti costringe a incassare i colpi, uno dopo l’altro. Sono le bugie che mi racconto ogni giorno per fare finta che sia tutto a posto». Frasi che sono un pugno nello stomaco. Che ti inchiodano, ti stordiscono, ti costringono a fare i conti con te stesso. Sono le frasi del monologo Peppino: un dialogo, un botta e risposta serratissimo con Impastato, scritto da Gabriella Uccello della compagnia teatrale via Pindemonte n.88, che questa mattina lo ha interpretato a piazza Verdi in occasione della manifestazione di cittadini per raccontare le storie delle vittime della mafia. 

E continua:  «La mafia è la paura di dire ad alta voce il proprio nome e cognome, di prendersi la responsabilità delle proprie idee. Peppino dammi il coraggio di dire “io non ho paura”. Ma non è vero, io ho una fottutissima paura. La mafia si nutre dello scetticismo che ci fa credere che ogni cambiamento sia impossibile. Ma anche se ho paura, io oggi a questa mafia voglio dire che si sta sbagliando. Si tratta solo di decidere da che parte vuoi stare».

Un’iniziativa partita tre anni fa come meccanismo naturale e necessario di difesa a una frase pronunciata da Beppe Grillo in visita a Palermo, con cui distingueva tra vecchia mafia, più onorevole secondo lui, e nuova mafia, divenuta più violenta per l’influenza di fattori esterni. Ma la mafia di onorevole non ha avuto mai niente. Né prima né dopo. E per dimostrarlo, da tre anni, i cittadini si riuniscono ogni seconda domenica di novembre, dandosi il cambio in quella che sembra una staffetta di letture.

Giuseppe Montalbano, Giovanni Corrao, Gaspare Attardi, Francesco Gebbia, Emanuela Sansone. Centodue nomi e cognomi, che partono addirittura dal 1848. Storie che solo storie in realtà non sono. Ci appartengono, ci riguardano, ci segnano. O, almeno, così dovrebbe essere. Lo è stato e lo è ancora, ad esempio, per la ragazza mingherlina dai capelli lunghi color mogano che, tra i tanti, ha preso in mano il microfono per raccontare di chi non c’è più. «Non restiamo indifferenti a quello che è successo a uomini e donne che ci sono stati prima di noi. Anche oggi accadono cose che restano nel silenzio, ma che ci sono. Girarci dall’altra parte ci rende mafiosi». Lei è Alessandra Ferrara, e il suo è un intervento intenso, sofferto. «Ti guardi intorno e vedi tutta questa gente che passeggia sotto il sole caldo di oggi, ma non è vero che va tutto bene, ci sono cose celate, situazioni e giri che non si vogliono vedere – spiega a MeridioNews -. Quando io stessa ho visto con i miei occhi e ho deciso di parlare, ho dovuto constatare che non accadeva nulla, nessuna conseguenza né cambiamento. Aprire gli occhi per vedere veramente può essere davvero triste».

Per Alessandra il muro di omertà oggi esiste ancora. Così come la mafia, malgrado qualcuno dica di no. «Non è evidente come tanti anni fa, quando ogni giorno per strada trovavi un morto ammazzato, ma c’è, sottile e invisibile, c’è. È anche nei nostri comportamenti quando litighiamo per un parcheggio o abbandoniamo una bottiglia vuota per terra. Questa è mafia – dice -. Si può cambiare, ma può partire solo da noi, fino a innescare un effetto boomerang dove ognuno tocca l’altro e lo contagia». Sono parole bellissime, le sue, in grado di accendere davvero la fiducia nella convinzione che questa terra disgraziata, per riscattarsi, non abbia bisogno di eroi e di sangue, ma di schiene dritte. Parole bellissime in un’assolata piazza Verdi, dove questa mattina in un angolo si poteva osservare questo gruppo di persone stretto attorno a quei centodue nomi, e nell’altro invece l’indifferente e surreale scorrere della quotidianità, fra venditori di palloncini e famiglie ignare di cosa stesse accadendo a pochi metri da loro.


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