L'ultima fatica di Steven Spielberg riserva grosse delusioni agli aficionados di SF-movies pur essendo l'ennesimo successo commerciale dell'industria cinematografica americana
La guerra dei mondi
Per chi, come l’autore del presente articolo, si affeziona molto facilmente alle voci più popolari del nostro doppiaggio – per intenderci, ai compianti Pino Locchi e Ferruccio Amendola, come alle Selvaggia Quattrini o ai Luca Ward – non riesce troppo semplice apprezzare altrettanto rapidamente qualsiasi, ancorché temporaneo, turn-over nell’opera di trasposizione delle pellicole straniere. In chiunque sia convinto del valore artistico assunto dal doppiaggio non desta, ad esempio, particolare entusiasmo il mancato apporto di Roberto Chevalier alla versione italiana de “La guerra dei mondi”. Voce principale di uno degli attori più celebri di Hollywood, appare come l’artista più indicato a modulare le corde interpretative espresse dai diversi personaggi con i quali si è cimentato Tom Cruise.
Ma l’ultima fatica di Steven Spielberg riserva delusioni di ben maggiore peso agli aficionados di SF-movies.
L’apertura de “La guerra dei mondi” presenta una serie, alquanto improbabile, di trasformazioni gestaltiche dello spazio che non contribuisce certo a disporre positivamente nei confronti della visione di questo film. Malgrado un budget semplicemente faraonico (oltre 200 milioni di dollari, NdR) viene inanellato un insieme di ingenuità francamente di troppo per un kolossal tanto atteso. Fulmini a iosa, in un cielo di piombo, se possono evocare il “sublime dinamico” di kantiana memoria, non sono sufficienti a creare il pathos che prelude ad un attacco alieno che ha inizio – inopinatamente – suscitando, non già un panico generalizzato, ma la curiosità nella folla spettatrice del risveglio dei mostruosi tripodi. Poco credibile.
Un Cruise in fuga, al primo, evidente manifestarsi della minaccia, appare grossolanamente inserito su uno sfondo digitale che fa rimpiangere l’impeccabile chroma-key di film come “Superman-the movie”(che risale, peraltro, al lontanissimo 1977).
Ma l’impietosa disamina dei gravi limiti de “The war of the worlds” sfortunatamente non finisce qui. Perché alla ridicola organizzazione dell’esercito contro avversari resi invincibili da sistemi difensivi che ricordano maledettamente da vicino “Independence day”, bisogna aggiungere l’inconsistente interpretazione di Robbins. Il character dello spostato nevrastenico che esorcizza le proprie psicosi imbracciando una doppietta ha fatto decisamente il suo tempo.
La bambina Fanning ha invidiabili, oltre che inverosimili, eloquenza e presenza di spirito. Ed è agghindata come a “Milano vende Moda”. I superstiti si direbbero gli spazzacamini di “Mary Poppins”. E l’impressione è che, da un momento all’altro, debba saltar fuori Dick Van Dyke dalla canna fumaria di un edificio distrutto cantando “What a cool thing walking with Mary”.
Tuttavia, il boccone più succulento resta quello rappresentato da un’ anacronistica chiosa neopositivista che vorrebbe insinuare nel film elementi di riflessione sul significato teleologico dell’esistenza umana. Ma si tratta di una pagina appiccicata con la saliva al resto della sceneggiatura.
“La guerra dei mondi” costituirà l’ennesimo successo commerciale dell’industria cinematografica americana. Ma è una riduzione di cui H.G. Wells assai difficilmente sarebbe stato soddisfatto.