Iblis, La Causa, storia di un pentimento Santapaola jr e la sua litigiosa famiglia

«Perché mi sono pentito? Ero insoddisfatto, alla mia famiglia dovevo un cambiamento di vita. E questo purtroppo era l’unico modo. Cioè, purtroppo…». Nella seconda deposizione del processo Iblis sui presunti rapporti tra politici, mafiosi e imprenditori, c’è spazio anche per la storia personale dell’ex esponente criminale, oggi collaboratore di giustizia, Santo La Causa. Una scelta che passa anche attraverso le dinamiche interne a Cosa nostra etnea e al rapporto con quello che lui stesso ha indicato ai magistrati come il vero capo del clan catanese: Vincenzo Santapaola, figlio di Nitto. Una famiglia litigiosa, alle prese con nuovi equilibri e con epurazioni interne: come l’omicidio di Angelo Santapaola e Nicola Sedici, per cui è in corso un processo in Corte d’Assise, stralciato dal filone principale di Iblis.

La Causa e Santapaola jr si incontrano per la prima volta in carcere, proprio a Biccoca dove oggi si svolge il processo, ma negli anni ’90. Condividono la permanenza anche in altri istituti, come l’AsinaraL’Aquila e Parma. Entrambi al 41 bis, ma capaci di comunicare. «Enzo Santapaola aveva il suo metodo – spiega il pentito – Si faceva recapitare i bigliettini cuciti nelle maniche degli accappatoi». Nel 1998 il collaboratore incontra il figlio di Nitto da uomo libero. «E in una posizione diversa: era già il capo». Da lui La Causa riceve la direttiva di riportare l’ordine dopo l’anarchia che regnava nella famiglia a seguito della contrapposizione con il clan Mazzei e di riorganizzare la bacinella delle imprese, cioè il fondo cassa formato dalle estorsioni e la messa a posto degli imprenditori.

L’anno dopo quel primo incontro da uomini liberi, La Causa viene arrestato. Resta in carcere fino al 2006, per poi tornarci nel 2009. Anche Santapaola jr entra ed esce dagli istituti penitenziari. «Da tempo io ero insoddisfatto, ma sapevo che tagliare con quel tipo di vita è possibile solo da morti. E forse è una liberazione», racconta il pentito. Dopo una prima decisione, con tanto di lettera inviata al magistrato di sorveglianza, ci ripensa. La Causa si rivolge ad Enzo Santapaola: «La sua riposta fu “Ti do la mia benedizione” e io gli credetti. Fui contento, ma non era vero». Santapaola esce prima di La Causa dal carcere. «Mi mandò anche una lettera carina, mentre era in treno per Roma: mi raccontava della puzza di piedi del viaggiatore a fianco ed elogiava il mio carattere». Una volta fuori, il collaboratore decide di allontanarsi dalla città e dalla tentazione della vecchia vita e si ritira a Tremiesteri. Ma presto riceve il richiamo alle armi di Vincenzo Santapaola.

Questa volta il suo compito doveva essere osservare quel cane sciolto del cugino di Nitto, Angelo Santapaola e frenare le sue intemperanze. Uno che, ancora prima di essere affiliato, già faceva di testa sua e non portava nemmeno i soldi alla bacinella, tenendoli per sé. «Fino a quando Vincenzo Santapaola non ci disse “Sapete cosa dovete fare”». Ucciderlo. Insieme a lui muore il suo fedelissimo, Nicola Sedici. «Dopo abbiamo dovuto tranquillizzare i gruppi vicini ad Angelo Santapaola, come quello di Picanello, che temevano di fare la stessa fine», racconta La Causa. A rassicurare tutti, bastò la presenza di Vincenzo Santapaola: «”Non c’era bisogno che ti scomodavi a venire di persona”, gli dissero», continua il pentito.

In cambio di quell’omicidio, un’altra testa avrebbe dovuto saltare: quella di uno dei vertici, Enzo Aiello. A richiederla insistentemente a La Causa era Pippo Ercolano, che accusava Aiello di essere la causa della sua caduta in disgrazia. «”Chiddu s’azzampau ‘nsaccu ri soddi“, ripeteva sempre». Ma ormai Ercolano contava troppo poco. «Era presente in tutte le discussioni e in tutti gli affari – racconta La Causa – Gestiva anche i soldi in arrivo da dividere e lo faceva con un occhio di riguardo per i vari nuovi reggenti (dopo che i vecchi venivano arrestati, ndr) per tenerseli fedeli». «Aveva il vizio di jittari manu. Per mano aveva na pala ri ficurinia, mani molto pesanti», si auto-traduce il collaboratore. Eppure veniva chiamato u vecchio. Né per l’età, né per il rispetto della sua esperienza in campo di illeciti. Ma per un umano avvicendamento ai vertici, anche quelli criminali.


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