L’omicidio Scaglione e la scomparsa di Vincenzo Guercio L’ombra del Capitano, «uno dei killer più violenti» di mafia

I primi a dare l’allarme sono i dipendenti del bar Massimo a piazza Verdi. Sono le 2:15 dell’11 luglio 1971 e il loro capo, il gestore di quel bar, non si vede dal primo pomeriggio del 10 luglio. Lui è Vincenzo Guercio e da ore nessuno ha più sue notizie. Il personale lo aspetta con pazienza, pensa a un contrattempo, ma è inusuale che non arrivi nemmeno per chiudere il locale, una volta finiti da un pezzo anche gli ultimi spettacoli del cinematografo vicino. Gli ultimi a vederlo, quel giorno, sono i famigliari. Guercio, infatti, contrariamente alle sue abitudini, quel giorno preferisce rientrare a casa per pranzo anziché andare nel solito locale di via Bara all’Olivella. Quindi mangia con la moglie Caterina, poi gioca coi tre figli e intorno alle 14:30 esce di nuovo, diretto al suo bar. Solo che lì non lo vedranno arrivare mai. Che fine ha fatto Vincenzo Guercio? Le ricerche partono ufficialmente alle 3:20 di quella notte. 

Appena due ore dopo gli agenti della questura trovano la sua Alfa Romeo Giulia 1300 abbandonata in corso Calatafimi. È in direzione piazza Indipendenza, leggermente obliqua rispetto al marciapiede destro per chi scende dalla Rocca di Monreale. I finestrini, sia quelli anteriori che quelli posteriori, sono tutti abbassati e le chiavi sono inserite nel quadro di accensione. Quella scena mette tutti in allarme. E si fa strada l’idea che a Guercio sia accaduto qualcosa di terribile. Ma chi è Vincenzo Guercio? «Uno che chiama, che avvisa sempre anche del minimo ritardo», dicono i dipendenti, «molto attaccato alla famiglia», dice la moglie. Uno «ansioso di benessere economico», dicono gli inquirenti, «anche a costo di trattare affari non leciti, ma sostanzialmente incapace di condurne a buon fine e tanto che si arrabbattava sistematicamente nel far quadrare il suo bilancio o nel provvedere ad onorare scadenze di tratte-cambiali e assegni postdatati».

Uno «dal buon carattere e pronto a mettersi a disposizione di amici e conoscenti, ma che non disdegnava di assumere un certo atteggiamento di “persona intesa” che però nessuno prendeva sul serio e che derideva. Conoscitore dell’ambiente mafioso e delinquenziale palermitano ma, nel contempo, molto riservato, cauto ed elusivo anche nel semplice accennare a fatti e persone». Questo il quadro messo per iscritto nero su bianco dall’allora colonnello dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che si occupa del caso. E poi viaggiava spesso, Guercio. Napoli, Milano, e da qui forse fino alla Svizzera e alla Jugoslavia per non precisati contatti o affari. Sembra tutto molto poco, però, per suggerire la pista della vendetta mafiosa. Non solo per il modo di vivere di Guercio, ma anche per «l’audacia e la spregiudicatezza nella scelta del luogo e dell’ora (pieno giorno, strada di grande traffico, non distante dalla caserma)», per la rapidità con cui i sequestratori hanno agito, senza lasciare tracce, per non parlare del fatto di averlo bloccato e prelevato a poca distanza da casa sua. Sono elementi che fanno pensare.

Ma c’è anche dell’altro, però. C’è, ad esempio, il fatto che «lo stesso giorno dell’omicidio in persona del Procuratore Scaglione, in un momento di minore autocontrollo e nell’immediatezza della notizia del crimine, in occasionale incontro con il capitano Russo, aveva esclamato “ieri sera ho visto a Palermo ‘u Paccarè». Cioè l’imperturbabile: è Gerlando Alberti senior, detto anche il Capitano, boss di Danisinni. Facendo quel nome, Guercio lascia intendere che i due fatti, cioè l’omicidio di Scaglione e la presenza in città del boss la sera prima, siano collegati, «tradendo visibile turbamento e timore per quanto involontariamente sfuggitogli». Prima di questa indiscrezione si era mostrato interessato alla taglia di 20 milioni decisa dal Ministero dopo quell’omicidio, «sicuro che avrebbe potuto dare un apporto informativo ed essere stimolato alla cosa dalla prospettiva di conseguire un rilevante utile (sia pure comportante il rischio e la violazione della legge dell’omertà)». Vincenzo Guercio, insomma, sembra che sappia qualcosa di quell’omicidio. E sembra interessato a vendere quelle informazioni per sanare ogni sua pendenza. Agli inquirenti, questo, sembra un buon movente per un sequestro.

Cosa avrebbe potuto spingere Gerlando Alberti, si chiedono gli investigatori, a lasciare la sicura Milano dove poteva contare su una fitta rete di «elementi a lui devoti» trasferiti al Nord, «se non la progettazione, organizzazione ed esecuzione di un crimine tanto grave ed importante quale quello dell’assassinio del Procuratore della Repubblica?». Ci sono, poi, altre considerazioni da fare. Come quella relativa al luogo scelto per l’agguato di quel 5 maggio ’71, via dei Cipressi, «territorio di sua pertinenza, in quanto rappresentante della cosca di Danisinni-Porta Nuova, cresciuto nella via Cappuccini dove abita la sorella che lo ha ospitato in questi ultimi tempi in occasione delle sue brevi permanenze a Palermo», tenendo conto anche dell’«assoluta omertà dettata da paura e certezza di vendetta degli abitanti della zona». Giorni prima dell’omicidio in molti avevano segnalato la presenza di Alberti e dei suoi nipoti a piazza Capuccini, antistante il cimitero dove Scaglione si recava quasi ogni giorno e dalla quale si imbocca la via dei Cipressi, dove il procuratore verrà ucciso pochi giorni dopo.

E poi c’è quel curriculum criminale di Alberti, uno noto per l’«estrema pericolosità», il suo nome è finito nei rapporti investigativi sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro ma anche in quelli relativi alla strage di viale Lazio. «Indiziato di appartenenza alla mafia da moltissimi anni, uno dei più violenti e pericolosi killer, in questi ultimi anni a capo – con l’appellativo di Capitano – di pericolosissimi killer della mafia che costituiscono la base e cioè gli “uomini di azione” del gruppo Greco». Gli inquirenti a questo punto tirano le somme: il peso di quella confidenza sfuggita a Guercio, il suo interesse per la taglia decisa dopo il delitto Scaglione, i suoi continui viaggi nella Milano di Alberti, per non parlare dell’estrema pericolosità e spregiudicatezza del Capitano, sono tutte circostanze che suggeriscono che ci sia la mano di Cosa nostra dietro la scomparsa di Vincenzo Guercio. Che deve aver destato l’attenzione di quelli che di lì a poco lo avrebbero sequestrato e ucciso, mentre si interessava dell’omicidio Scaglione. 

«Sono tutti elementi che in modo univoco e confluente inducono a ritenere che la soppressione del Guercio sia stata appunto organizzata ed eseguita da Alberti e dai suoi affiliati, non senza lo “sta bene” delle più alte gerarchie mafioso interessate ad evitare ogni propalazione sull’omicidio Scaglione, che avrebbe potuto fare affiorare le loro responsabilità quali mandanti. I responsabili – si legge più avanti nel documento che, in calce, porta anche la firma di Boris Giuliano – hanno avvertito anche la necessità di averne la disponibilità fisica per conoscere la natura e l’entità delle notizie in suo possesso e di quelle eventualmente riferite agli inquirenti». Malgrado questa ricostruzione, Gerlando Alberti non arriverà mai a un processo per l’omicidio Scaglione, né per la sparizione di Guercio. Dopo un periodo di latitanza, verrà arrestato il 26 agosto 1980, in seguito a un blitz messo a punto dalle forze dell’ordine grazie alla collaborazione di Carmelo Iannì, 46enne di Palermo che gestisce con la famiglia l’albergo Riva Smeralda, a Villagrazia di Carini. Lo stesso dove, nell’atrio davanti alla moglie, verrà ucciso solo due giorni, il 28 agosto ’80, dopo l’arresto del boss, che dalla galera nel frattempo ha dato mandato ai suoi fedelissimi di eliminare quel cittadino onesto che aveva aiutato lo Stato a metterlo dentro. 


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