Secondo la magistrata tutte le parti coinvolte, dai colleghi ai giudici agli avvocati di parte civile, all'epoca avrebbero avuto tutto il tempo di capire che quel pentito non era credibile. «Chiesi di rimanere, ma non mi volevano. Ero servita solo a far fare carriera a tutti»
«Inconfutabile che Scarantino stava dicendo sciocchezze» Per pm Boccassini in quegli interrogatori la «prova regina»
«Le dichiarazioni di Scarantino facevano acqua da tutte le parti». Ilda Boccassini non usa mezzi termini. La magistrata in pensione ha ripercorso, al processo nisseno per calunnia aggravata a carico dei funzionari del gruppo Falcone-Borsellino Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, il periodo trascorso alla procura di Caltanissetta e il suo coinvolgimento nelle indagini sulle stragi del ’92. Lei arriva nell’ottobre di quell’anno, per ripartire due anni più tardi, nel ’94. «Mi sono occupata in maniera quasi esclusiva della strage di Capaci – dice subito -, quando sono arrivata a Caltanissetta erano già applicati altri colleghi. Il primo periodo, parliamo del dicembre 92, fu per me soltanto quello di esaminare una massa informe di carte senza nessun ordine e collocazione. Tutte le forze di polizia tra Palermo e Caltanissetta avevano interesse a occuparsi delle stragi, però non c’era nessuna direttiva».
Sarebbe questo il suo primissimo incarico, insomma. Mettere ordine. «”Cocca mia qua ci sono le carte, vedi che devi fare, arrangiati”, ricordo benissimo questa frase che mi disse Tinebra – continua Boccassini -. Dissi ai colleghi che era necessario rifare il sopralluogo a Capaci, perché dalle carte e dai reperti sequestrati sul luogo della strage mi resi conto che era stato fatto male, quindi andava ripetuto coinvolgendo non solo i consulenti già impiegati sulle stragi, ma tutti, carabinieri, polizia, Fbi, tutte le forze militari possibili. Il primo periodo fu dedicato a questo e a una divisione di compiti delle forze di polizia, tutti dovevano partecipare alle indagini ma con direzioni specifiche e sotto la direzione di Caltanissetta». C’è, quindi, almeno all’inizio una mancanza di regia che si respira all’interno degli uffici e che, in qualche modo, condiziona il lavoro e le indagini. Un clima che vale tanto per Capaci quanto per via D’Amelio, a sentire oggi la magistrata. A suo dire, non dovrebbe destare alcuno stupore se, a un certo punto, subentrò in qualche modo anche il Sisde.
«Sullo sfondo di due vicende gravissime che hanno sconvolto il mondo intero, che il procuratore capo si incontri coi Servizi non mi pare una cosa terribile, se poi questi rapporti si sono evoluti e sono rimasti nei limiti della legge. Io ho appreso del coinvolgimento del Sisde dai giornali, non so se i miei colleghi incontrassero qualche funzionario dei servizi. Contrada l’ho conosciuto durante un interrogatorio. Sulla pista dei mandanti esterni e della sua presenza in via D’Amelio il giorno della strage abbiamo fatto tutto quello che era umanamente possibile fare».
Ma la presenza del Sisde non è l’unica cosa che la magistrata avrebbe appreso solo anni dopo. Un’altra cosa di cui all’epoca non avrebbe avuto alcun sentore è l’anomalia di quei tanti colloqui investigativi a collaborazione già cominciata, fatti sia con Vincenzo Scarantino che con Francesco Andriotta. «Lo apprendo dai giornali, ho scoperto che ce ne sono anche alcuni a mia firma. Di questi colloqui investigativi non mi ricordavo, vuol dire che quindi non davo troppa importanza a questa vicenda. Scarantino comincia questa collaborazione a giugno ’94, erano gli ultimi miei mesi di permanenza, avevo ancora molto lavoro da fare, quando Tinebra mi chiamò per dirmi che lui voleva collaborare io gli dissi di non contare su di me perché stavo per andare via e dissi di affidarsi agli altri colleghi che sarebbero rimasti a Caltanissetta».
Ma Tinebra, per l’interrogatorio a Pianosa del 24 giugno ’94, insiste, vuole che vada lei: «Io siccome sono un soldato, sono partita. Ci fu un viaggio in notturna in elicottero, penso che ci fosse anche Petralia con me». Solo che quell’interrogatorio inizia alle 20.30, quel giorno. Quindi forse la magistrata confonde quel viaggio con un altro. Come non è certo, dai suoi ricordi, se Arnaldo La Barbera viaggiò con lei o se si trovasse già a Pianosa con Scarantino. «Inutile che cercate di farmi cadere in contraddizione – dice a un certo punto piccata, in risposta alle domande dell’avvocato di parte civile Fabio Repici -, sono passati 30 anni, io risponderò sempre che “non lo ricordo”». Non ricorda, infatti, neppure di un altro interrogatorio avvenuto a febbraio: «Ero talmente impegnata in quel periodo che già mi meraviglio del fatto che fossi andato io a interrogare Scarantino. Mi spiace, capisco che do l’impressione che nella mia mente ci sia più Capaci che D’Amelio, ma non potevo occuparmi di tutto non stando giù, non era possibile fare più di tanto. Forse, in generale – dice -, il fatto di fare colloqui investigativi coi collaboratori era una prassi, tanto che poi è subentrata una normativa per sopperire agli errori fatti dai colleghi. Se quei colloqui servivano per addestrare il collaboratore, i colleghi andrebbero cacciati da ogni funzione pubblica, sul punto si poteva capire che Scarantino era inattendibile, è ridicolo».
Il picciotto della Guadagna non gliel’avrebbe mai raccontata giusta, a sentire oggi lei. Sin dall’inizio. Il finto pentimento avviene a giugno del ’94, fino a quel momento non sembra però che ci fossero dei veri e proprio contrasti all’interno degli uffici che indagavano: «C’erano delle visioni diverse – spiega -. Pur convinta della poca credibilità del soggetto, io dissi a Tinebra “se vuoi rinuncio alle ferie” perché avevo capito che c’era bisogno di un ago della bilancia, gli altri colleghi erano più propensi a dire “bene bene bene, sta collaborando”, mentre le mie perplessità ci furono sin dall’inizio. Ma Tinebra mi disse che avevo già dato tanto, quindi andai in ferie e tornai a settembre. La dottoressa Palma e il dottor Petralia erano più propensi a credergli, o meglio, meno propensi a una critica, Giordano invece faceva l’aggiunto e quindi sapeva e non sapeva. La sorpresa, per me e Sajeva, furono gli interrogatori in nostra assenza. Anche per i sopralluoghi e il riconoscimento da parte di Scarantino dell’autocarrozzeria Orofino, io ho saputo queste cose dai giornali, che poi bisogna vedere anche se è vero. Mi porto dietro un po’ di amarezza, non solo l’indifferenza e il fastidio di quello che si diceva acuito col ritorno dalle ferie – si sfoga a un certo punto Boccassini -, a essere venuta fuori dai giochi era la prassi, vuoi per leggerezza o per sciatteria, le ragioni potevano essere tante, sta di fatto che non ero più la protagonista come lo ero stata nei mesi precedenti lavorando sulla dinamica delle stragi».
Scarantino viene sentito due volte ad agosto. E poi a settembre dalla stessa Boccassini, appena rientrata dalle ferie estive. «Coi colleghi già a luglio c’erano state discussioni precise, c’erano due parti contrapposte: una di queste riteneva di andarci coi piedi di piombo perché lui appariva debole e poco credibile, anche se a luglio gli abbiamo dato comunque una possibilità considerando che magari avesse paura, che avesse il pensiero alla famiglia a Palermo, cose normali di cui si tiene conto coi collaboratori; poi, quando iniziava a maturare un quadro più sostanzioso, le discussioni c’erano e chiedemmo una riunione – dice lei -. Man mano che si andava avanti negli interrogatori era la prova regina inconfutabile che Scarantino stava dicendo delle sciocchezze e quindi eravamo ancora in tempo per correre ai ripari ed evitare cose che negli anni avrebbero pregiudicato tutto». Cosa che in effetti succede. Ma non sono poche le stranezze che colpiscono, all’epoca, la magistrata, che parla a tratti di violazioni del codice e delle norme. «Quando Scarantino arrivava in procura a Caltanissetta, si chiudeva in una stanza da solo con Tinebra, poi usciva e cominciava l’interrogatorio. Alla luce di questo, di tutti i miei tentativi di cambiare metodi e atteggiamenti, dei colleghi che non vedevano l’ora che me ne andassi, scrissi una seconda relazione. Tutti sapevano, tutti conoscevano questa relazione, dove mettevo per iscritto che secondo me si dovevano rispettare i codici».
«Che poi altri colleghi si siano lamentati o abbiano messo per iscritto quello che succedeva negli uffici della procura di Caltanissetta nell’ultimo periodo non so, non credo – aggiunge -. Soltanto col pentimento di Spatuzza nel 2008 io ricevetti una telefonata dall’allora procuratore di Caltanissetta Lari che mi chiedeva se era vero che io e Sajeva avevamo scritto delle relazioni, che lui non trovava, erano sparite». Lei ne aveva comunque delle copie. Oltre al fatto che il collega con cui le aveva firmate aveva pensato bene di inviarle anche nel capoluogo, dove vengono in effetti trovate. Sajeva però aveva deciso di mandarle anche alla procura di Palermo, che doveva essere informata di cosa stava succedendo a Caltanissetta. Se i tre collaboratori delle stragi avevano spudoratamente mentito e ci stavano facendo fare delle cazzate, dovevano essere subito avvertiti. Mandammo tutto agli uffici di Caselli e della collega Sabatini – racconta -. Questa è la situazione che io ho vissuto a Caltanissetta. Dopo tutte queste insistenze, fatemelo dire oggi che sono qui a ripetere sempre le stesse cose per la quarta volta e mi chiedo perché, sentirmi quasi in colpa per aver scritto quelle relazioni. Quello che è successo dal ’94 in poi l’ho leggiucchiato dai giornali, ero impegnata a Milano in ben altre vicende. Giudici, colleghi e avvocati di parti civili dell’epoca avevano avuto tutto il tempo di capire che Scarantino non era credibile».
Tra i “non ricordo”, i “non l’ho mai saputo”, accompagnati puntualmente da “ho letto solo dopo sui giornali”, anche con Ilda Boccassini sembra di ascoltare un copione già sentito in altre udienze dello stesso processo, un copione ormai stantio. Quello interpretato da chi sembra quasi voler allontanare ogni possibile responsabilità da sé scaricandola, semmai, addosso a chiunque altro. Esprimendo un commento personale e gratuito su molte cose, specie quando a fare le domande sono gli avvocati di parte civile, palesando un atteggiamento a tratti guardingo e sospettoso, a tratti nervoso e irriverente. «Io ero disposta a rimanere a Caltanissetta oltre i due anni, soprattutto per i processi che si sarebbero celebrati di lì a poco – spiega ancora -. Fortunatamente, oggi dico così, all’epoca…bo, non saprei definirmi, Tinebra disse “assolutamente no”. Non mi volevano, ero servita solo a far fare carriera a tutti, a quel punto dovevo andare via. Ma io sono stata così imbecille da chiedere il trasferimento d’ufficio per continuare le stragi, ero disponibile a fare questo ulteriore sacrificio».
«Non credo che tutti i colleghi rimasti abbiano preso a cuore l’andazzo un po’ leggero di Tinebra – dice dopo -. C’era un clima troppo accondiscendente nei riguardi di Scarantino, per questo la famosa lettera la mandammo anche a Palermo, se nel 2008 non arrivava Spatuzza forse delle due relazioni ne restava solo un mio ricordo. Se non avessi fatto proprio queste due relazioni oggi mi avrebbero addossato tutte le responsabilità e le colpe, chissà… magari per me avrebbero riaperto Pianosa. Menomale che ne avevo una copia». Sembra salvare soltanto l’operato di quel gruppo investigativo di cui oggi alcuni ex funzionari sono sotto accusa: «Il gruppo Falcone-Borsellino ha sempre fatto un lavoro encomiabile».