Omicidio Fragalà, collaboratore fa il nome del mandante «Alcune famiglie hanno minacciato di uccidere mio figlio»

«Ritengo sia giusto fare chiarezza su questo omicidio e sui discorsi che so io, dare un valore alla persona che sono, dare chiarezza e aiuto alla giustizia, dare un avvenire ai miei figli e alla mia famiglia». Spiega così la sua incursione al processo per l’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà il collaboratore di giustizia Francesco Paolo Lo Iacono. Arrestato a luglio per traffico di droga, viene sentito questa mattina al processo nelle vesti di teste assistito per chiarire alcune sue recenti dichiarazioni rese ai magistrati. Quelle, in particolare, del 4 e dell’8 ottobre scorsi, in cui ha sostenuto di conoscere il mandante dell’omicidio del penalista. Fa il nome di Gregorio Di Giovanni. «Ci dobbiamo dare una lezione a questo avvocato Fragalà». A dirlo sarebbe proprio il reuccio di Porta Nuova, arrestato a dicembre in seguito al blitz Cupola 2.0. Lo Iacono è certo di avergli sentito pronunciare proprio quella frase. È una sera di febbraio 2010, uno dei titolari del bar in cui il collaboratore lavorava, Salvatore Battaglia, lo avrebbe chiamato intorno alle 22.45 per chiedergli di portare tre caffè in via San Gregorio, nel suo appartamento.

Lo Iacono esegue, prepara i caffè e si avvia. Arrivato all’abitazione, il portone del palazzo è già aperto. «Salvo sono giù», una telefonata al volo a Battaglia, che gli apre la porta. Entra all’ingresso e subito sente quella frase, urlata a qualcuno da Gregorio Di Giovanni. Riconosce subito la sua voce, lo conosce, «in zona si vedeva sempre e spesso veniva al bar, è amico di famiglia dei Battaglia». «Buttava voci, ripeteva questa frase, “ci dobbiamo dare una lezione a questo avvocato” – racconta il collaboratore -. Con lui c’era un’altra persona che però non riuscivo a vedere. Di Giovanni era molto agitato, era girato di spalle, io l’ho visto ma lui no. A questo punto Salvatore Battaglia mi ha detto di lasciare i caffè all’ingresso e andare via». Torna al bar Bobuccio a lavorare, domandandosi perché il boss ce l’avesse tanto con quel Fragalà. Nel frattempo passano quasi dieci anni da quella sera. Lo Iacono finisce in galera, prima al Pagliarelli (in isolamento per motivi di sicurezza) e poi, dal 31 agosto al 4 ottobre, nel carcere di Velletri (reparto Cpt), dove finisce nella stessa sezione in cui si trova anche uno dei sei imputati per l’omicidio del penalista, Antonino Siragusa.

«Lo conoscevo già da tempo, lui, la moglie e la famiglia di lei, lo conosco da circa tredici anni, il suo è un nome noto a Palermo – spiega -, aveva a che fare con estorsione, aveva la piazza di spaccio a Borgo Vecchio, una persona di spicco della mafia di Palermo, al bar ne parlavano bene. Quando sono arrivato lì a Velletri in un primo momento sono stato accolto bene, Siragusa mi faceva delle domande, mi chiedeva perché mi avessero portato là, gli ho detto che non lo sapevo e che comunque non lo riguardava la cosa. Da quel momento sono stato allontanato e quando parlava con qualcuno tendeva a blindarsi». Lo sentirebbe, però, parlare del processo che si celebra a Palermo per l’omicidio Fragalà. E anche di alcuni dettagli della sera del 23 febbraio 2010. «Dal corridoio si riesce a sentire tutto, “il giubbotto che indossavo quella sera me l’hanno sequestrato, quella sera che hanno ucciso l’avvocato Fragalà”. Siragusa racconta che lui c’era, ma anche Ingrassia, Arcuri, Cocco e Castronovo (tutti imputati a processo ndr)». Sembra avere molto da raccontare, Lo Iacono. Mentre il clima, nell’aula bunker dell’Ucciardone, si fa sempre più teso. Racconta le prime indiscrezioni, ascoltate una decina di giorni dopo il suo arrivo a Velletri. 

Mentre altri dettagli li sentirebbe durante un altro sfogo di Siragusa, un paio di giorni prima di un suo interrogatorio con la pm Amelia Luise. «Ho sentito che diceva a Giancarlo Giugno (un altro detenuto ndr) che la sera del delitto Siragusa, con Cocco e Castronovo, era con l’auto della moglie di lui. Dopo l’aggressione sono andati a lasciare l’auto a lavoro da lei, al Bingo del Politeama, e gli altri due hanno proseguito a piedi – dice -. Durante l’aggressione, Cocco e Castronovo tenevano l’avvocato, mentre Siragusa e Ingrassia lo colpivano con la mazza, era una sola, ce l’aveva Siragusa. Diceva che quando l’hanno lasciato là (l’avvocato ndr) non sapeva nemmeno che era morto. Quando hanno finito di picchiarlo, se ne sono andati insieme. Si è parlato anche di un giubbotto nero, di pelle nel petto e di tessuto nelle maniche, diceva che era il giubbotto che aveva indossato la sera in cui aveva ucciso l’avvocato Fragalà. Parlò anche di due caschi, i primi non gli erano piaciuti per il colore, ne prese altri senza neanche pagarli perché era un posto in cui faceva le estorsioni. E parlò anche delle telecamere, diceva “come fanno a risalire al fatto che eravamo noi quel giorno lì” e disse anche che Ingrassia per non farsi riconoscere aveva anche fatto la dieta».

Di quel delitto, a suo dire, se n’era parlato molto in zona, a Porta Carini. «È normale che si sapeva, vengono molti avvocati a fare colazione in quel bar, la notizia si è sparsa subito. Ma io non ho mai sentito nulla di questo processo su Radio Radicale, ho letto qualcosa solo sui giornali dell’epoca», assicura il teste. Nei racconti di Lo Iacono c’è spazio anche per un terzo episodio, un terzo momento in cui avrebbe ascoltato delle indiscrezioni sul delitto. Captate, questa volta, non più passeggiando nel corridoio della sezione, ma all’interno della cucina di cui disponevano i detenuti. «Sono entrato per prendere dell’acqua e Siragusa stava parlando con gli altri dell’omicidio – dice -. È venuto fuori anche il nome di Gregorio Di Giovanni, e certo, il mandante era lui. “Se si pentisse succederebbe una catastrofe”, diceva. Ma a Palermo lo conoscono tutti, è soprannominato l’erede di Totò Riina, Siragusa si fa forte di questo, che Di Giovanni non parla». In quell’occasione Lo Iacono avrebbe preso la parola, rivolgendosi direttamente a Siragusa: «Gli ho detto “Antò ma perché non dici la verità“. Appena gli ho detto così è scattata subito la sua ira, “fatti i fatti tuoi, non sono cose che ti riguardano, un mi rari cchiu confidenza e statti nei tuoi panni“, spingendomi contro il frigorifero e non dandomi più confidenza».

Degli sfoghi di Siragusa, però, Lo Iacono avrebbe sentito anche dell’altro. Compreso il nome di un altro collaboratore, Francesco Chiarello: «Siragusa diceva che era stato tradito da lui, perché aveva fatto i nomi dei due ragazzi, di Cocco e Castronovo, che però non dovevano uscire. E sempre loro due, da quello che ho sentito, erano andati in ospedale a dire alla moglie di Chiarello che il marito li stava mettendo in mezzo, e lei lo riferì subito al marito». Sono tante informazioni per uno che ascolta altri parlare durante delle passeggiate lungo il corridoio del carcere. Perché non raccontarle subito ai magistrati, già a luglio quando decide di collaborare dopo l’arresto, invece di aspettare quasi tre mesi? «Io sono a conoscenza di altri omicidi, ne ho parlato con la Procura, ci sono delle indagini in corso – spiega -. Ho ricevuto molte minacce da parte di queste famiglie, dai parenti di Gregorio Di Giovanni, non posso fare nomi, ci sono indagini in corso – ripete -. Minacce di uccidere i miei figli e di fargli fare la fine di quello di Di Matteo (Santino Di Matteo ndr). All’ultimo colloquio con mia moglie lei mi ha detto “fuori sanno che siamo sbirri“, poi non è venuta più. Anche al Pagliarelli mi dicevano “spione, spione, non collaborare”». 

«Parliamo di altri omicidi, di estorsioni, di spaccio di droga, di altri fatti – racconta ancora -. E che coinvolgono diverse famiglie, anche legate alle famiglie coinvolte in questo processo, quindi mi hanno detto preventivamente di non collaborare, di non dire le cose che sapevo». Minaccia che va a segno. Lo Iacono decide di non parlare più coi magistrati e manda una lettera alla pm Giulia Beux in cui annuncia il suo dietrofront. «Ma la mia famiglia a Palermo continuava a ricevere minacce – dice -. Quindi ho ripreso definitivamente la collaborazione il 4 ottobre, per dare una speranza alla mia famiglia. Non avevo prima tutta questa sicurezza verso lo Stato, poi ho acquisito una certa fiducia». Parla per quasi tre ore, Lo Iacono, incalzato dalle domande di magistrati, avvocati e presidente. E quando finisce, tocca proprio all’uomo contro cui ha puntato il dito per quasi tutto il tempo, Antonino Siragusa, che chiede di poter fare delle dichiarazioni spontanee. «Io ho una lettera conservata di Lo Iacono, l’ha scritta 15 giorni dopo che era arrivato a Velletri – spiega -. Stava male, voleva aiuto e non voleva stare in carcere. Visto che dice che io ce l’avevo con lui e lo trattavo male…., mentre io lo sollecitavo a collaborare visto che stava così male, credo si voglia vendicare».

Dopo di lui, a fare la stessa richiesta è anche Francesco Castronovo, che appare subito particolarmente nervoso. «La Procura questo pentito l’ha trovato dentro al pacco delle patatine? – dice sprezzante l’imputato, in videocollegamento -. Devo ringraziare la polizia penitenziaria di Trapani, qui…», e sembra voglia alludere al fatto che siano state contenute alcune sue reazioni forti innescate dall’esame di Lo Iacono. Non fa in tempo a finire la frase che il presidente Gulotta lo blocca immediatamente, interrompendo quelle dichiarazioni, non attinenti al processo. 


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