Il vulcanologo da qualche giorno ha raccolto l'eredità dell'uscente Eugenio Privitera. Cinquant'anni e le idee chiare sugli obiettivi del suo mandato. In una lunga intervista con MeridioNews parla di Stromboli, dell'Osservatorio e dei libri di scuola di suo figlio
L’Etna, i terremoti e «la passione che ripaga tutto» Parla Stefano Branca, neodirettore Ingv a Catania
Vent’anni e più di vita nella ricerca, dalle cime dei vulcani del Mediterraneo agli uffici pieni zeppi di monitor, calcoli da fare e fenomeni da studiare. Chi lo conosce lo definisce come un uomo che è tutt’uno con il suo lavoro, sull’onda della genuina passione su cui può contare solo chi crede in quello che fa. La carriera di Stefano Branca, 50 anni, vulcanologo e ricercatore dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, da qualche giorno ha compiuto un salto che in molti pronosticavano. Direttore dell’Osservatorio etneo, la sede catanese dell’Ingv, raccogliendo l’eredità dell’uscente Eugenio Privitera. Prima il voto di oltre il 70 per cento dei suoi colleghi. Poi il via libera dai vertici romani dell’istituto, dal 2016 guidato da Carlo Doglioni. Pochi convenevoli durante l’incontro con MeridioNews, qualche puntata sul personale e subito, invece, nel vivo della materia in evoluzione. In questo caso, la Terra.
Come sta l’Etna?
«Da dicembre – data dell’ultima eruzione laterale accompagnata dal terremoto di Fleri, ndr – qui non ci siamo più fermati perché il vulcano non lo ha mai fatto. Registravamo fin dalla primavera 2018 dei segnali di cambiamento nell’attività dell’Etna, grazie a un aumento degli sciami sismici. In realtà la vera sfida degli ultimi mesi è stata lo Stromboli, con due parossismi ravvicinati e un’attività altissima che non si registrava da ottant’anni. A tutto questo devi sovrapporre la costante attività dell’Etna. Abbiamo retto perché siamo efficienti. Stiamo aspettando i risultati delle analisi sui prodotti eruttati in queste ultime settimane: finora la lava che abbiamo esaminato è un’evoluzione di quelli eruttati a dicembre. Ciò significa che non sta risalendo nuovo magma attraverso i condotti del vulcano. Al momento, dunque, la tipologia di attività che dobbiamo aspettarci è quella di questi giorni, esplosioni e colate limitate all’area sommitale».
A Stromboli le cose cambiano…
«Sembra che finalmente stiano iniziando a calare tutti i parametri del vulcano, ma visto quello che è successo, il cambio dello stile eruttivo, stiamo tenendo il monitoraggio altissimo. Abbiamo avuto tantissimi danni alle strumentazioni, di cui è previsto il rinnovamento totale. La gestione dei parossismi è stata complicata, uno sforzo enorme che ha dimostrato la grande esperienza che abbiamo acquisito, dandoci però anche indicazioni su cosa migliorare nella nostra ricerca».
Un escursionista è rimasto ucciso. Si poteva evitare?
«Il ragazzo era a una quota molto bassa, non vietata, l’accesso era libero. Queste sono questioni che riguardano chi decide sulla sicurezza e gli accessi ai vulcani, ovvero Protezione civile e sindaci. L’Ingv è tenuto a fornire un quadro della situazione eruttiva, a monitorare i fenomeni, questo è il nostro compito. Certo, il sistema nel complesso può migliorare, anche guardando a quello che succede su altre montagne. Alle Tre Cime di Lavaredo, patrimonio Unesco come l’Etna, il numero chiuso è una realtà consolidata. Da appassionato di montagna, e non da direttore, dico che in futuro forse si andrà in quella direzione anche in Sicilia».
In cosa deve migliorare Ingv riguardo il suo ruolo nella catena dell’allerta alla popolazione?
«Sull’Etna siamo già a buon livello, abbiamo un’esperienza enorme. Riusciamo ad avere tutti i segnali di preavviso di un’eruzione. E quando ce ne sarà una davvero grande, come quella che nel 1928 distrusse Mascali, la vedremo molto tempo prima rispetto a quanto accade con la normale attività a quota 3000. Riusciamo infatti a individuare l’intrusione del magma, cioè quanto già fatto a dicembre, quando il rischio di un’eruzione laterale grossa c’è stato. Il dicco stava cercando una via d’uscita nell’area della Schiena dell’Asino, avrebbe potuto minacciare i centri abitati. Noi avevamo già allertato la Protezione civile su questo rischio, facendo anche delle simulazioni sul percorso delle colate. Su Stromboli siamo un po’ più indietro, ma ciò è dovuto alla peculiarità del vulcano. Dopo i parossismi di luglio-agosto sappiamo che vanno studiati i segnali precursori di quelle esplosioni, ma il contesto è diverso dall’Etna, perché a Stromboli si può lavorare solo sulla cima, tre quarti di vulcano sono sott’acqua».
Lasciamo per un attimo i vulcani e passiamo ai terremoti.
«Un’altra grande sfida per il mio mandato. La nostra sede si trova al centro di un grande campo aperto per le sperimentazioni e la ricerca. Sull’Etna ci sono tante faglie attive molto note e si registrano terremoti piccoli e frequenti. Condizioni ideali per studiare i segnali precursori, quelli che precedono la scossa, un campo di portata mondiale. Poi c’è la possibilità di compiere studi probabilistici sulle faglie “al limite”, strutture geologiche che hanno accumulato energia e che potrebbero innescare scosse. Qualcosa di molto complicato da studiare quando parliamo invece delle grandi faglie regionali, come quelle dei grandi terremoti della storia. Sull’Etna invece l’innesco talvolta è il vulcano stesso, in forza della risalita del magma, come avvenuto a dicembre 2018. Ecco perché vanno rilanciati gli studi sulla pericolosità delle faglie. Potremmo fare scuola a prescindere dal problema urbanistico».
Cosa non da poco. Catania è città ad alto rischio sismico e gran parte dei suoi edifici sono vulnerabili.
«Le case fatte bene reggono, ma il punto è un altro. Perché devi costruirle o ricostruirle sulla faglia? Che senso ha ritrovarsela fratturata al primo movimento? In certi casi, basterebbe farla 30 metri più in là…»
Tre obiettivi per questi tre anni di mandato.
«Vogliamo puntare sulla riqualificazione delle infrastrutture dell’Osservatorio Etneo. Partiremo dalla sede distaccata di Nicolosi, dove c’è un laboratorio storico di clinometria. L’idea è di farne un Polo tecnologico spostando alcuni laboratori e il personale che sviluppa la tecnologia, facendone anche un polo divulgativo duplicando la nostra Sala operativa. L’altro sforzo importante riguarderà l’Osservatorio di Etna nord, il più alto d’Europa a quota 2900, che necessita di un grosso investimento di ristrutturazione. Mi piacerebbe che fosse un polo d’attrazione come quello del Cnr sull’Everest, utile come appoggio anche per altri enti di ricerca. In questo momento contiene molte strumentazioni e in estate viene usato per le scuole con i giovani ricercatori e molte sperimentazioni. Vogliamo coinvolgere la Regione per reperire i fondi e fare un buon progetto».
Secondo obiettivo.
«Lavoreremo sul monitoraggio dei vulcani. Dal 2020, grazie ai finanziamenti Pon green rinnoveremo l’intera rete di monitoraggio, vecchia più di dieci anni. Funziona al meglio, ma va aggiornata dal punto di vista tecnologico. Le telecamere saranno più moderne e passeremo al digitale. Ci basterà continuare sulla strada già tracciata, starà ai ricercatori fare il salto di qualità».
Terzo.
«La ricerca. Le collaborazioni sono importantissime e finora, qui a Catania, è mancato proprio questo, un legame forte con l’Università. Oggi si deve fare sistema, non ci sono alternative, mentre invece finora le interazioni sono state demandate alla buona volontà dei singoli. Lavorerò per fare sistema, anche il più miope si rende conto che senza un legame fra Ingv e Ateneo gli studenti vanno via. Noi facciamo tante attività di applicazione, dal gps ai rilevamenti da satellite, che si possono insegnare agli studenti di Geologia. Sono tecniche che noi sviluppiamo tanto spendibili in altri settori anche diversi dalla vulcanologia. Mi sono formato nell’università di Catania, le sono legato, non ha senso che non abbia una collaborazione strutturale con la sede Ingv della città, una delle più importanti d’Italia».
Sul piano delle risorse, l’istituto come se la passa?
«Ci stiamo riprendendo dopo anni di tagli e difficoltà. Aumentando i fondi istituzionali e in più, grazie ai bravi ricercatori, otteniamo tanti progetti regionali, nazionali e internazionali che portano risorse. La strada già tracciata è buona, cambiare tutto non serve perché farebbe perdere tempo. Serve invece continuità su questo ottimo solco già segnato».
Si dice che i siciliani, i catanesi, non siano preparati ad affrontare i rischi naturali. Come può l’Ingv, le sue attività estese e complesse, incidere per far fare un salto di qualità alla consapevolezza delle persone?
«Il problema è culturale, non solo siciliano ma di tutta l’Italia. Nella percezione comune manca la conoscenza dei fenomeni e dunque di quello che può accadere. Nessuno, altrimenti, costruirebbe sui torrenti come è avvenuto. L’urbanizzazione fuori controllo è anche figlia di questo e, per restare a Catania, avremmo evitato di avere oggi due terzi delle case vuote. La scuola per fortuna sta cambiando e saranno le nuove generazioni, più consapevoli, a dare la svolta. Ma ancora nei libri di mio figlio alle medie c’è solo una paginetta sui terremoti e tre pagine sul carsismo. Va bene conoscere il carsismo, ma il numero di pagine dovrebbe essere invertito. Noi da anni siamo impegnatissimi nella “terza missione” che abbiamo nello statuto, cioè la divulgazione. Stiamo facendo il massimo e la passione ripaga lo sforzo».