È questo l'interrogativo del direttore artistico Roberto Zappalà. «Non ho più timori dell'affrontare certe tematiche», dichiara a MeridioNews il coreografo che mette in scena uno spettacolo legato anche ad alcuni fatti storici
Sant’Agata, la pièce di Scenario pubblico e i processi Tra arte e folklore: «Semu tutti devoti ogni giorno?»
«Semu tutti devoti.. tutti i giorni»? È questo l’interrogativo che Roberto Zappalà, direttore artistico di Scenario pubblico, si pone a dieci anni dalla messa in scena dello spettacolo di danza contemporanea totalmente ispirato a Sant’Agata. Un tema ibrido, che unisce sacro e profano, fusi in una performance fisicamente assai fedele alla processione, riprodotta sul palco dai danzatori che sollevano per quaranta minuti il corpo supino di una danzatrice in vesti agatine. Una rappresentazione conforme alla realtà, che vuole anche esprimere il senso del possesso maschile rispetto al fercolo, trascinato solo da uomini. Una fedeltà alla tradizione testimoniata anche dalle migliaia di reggiseni utilizzati sul palco, volti a simboleggiare i seni amputati della Santa.
«Non ho più timori nell’affrontare certe tematiche», spiega Zappalà a MeridioNews. «Prima temevo di poter risultare folkloristico rispetto alla religione, per la quale ho molto rispetto, seppur da laico e agnostico; tanto da averne fatto uno spettacolo. Dovevo, però, trovare una chiave molto speciale ed eccola: la musica rock popolare». A cui si aggiunge quella dal vivo diretta da Puccio Castrogiovanni, frontman dei Lautari. «Ciò che mi chiedo, piuttosto, è: coloro che il 5 febbraio ogni anno partecipano così animatamente alla celebrazione sono realmente altrettanto devoti ogni altro giorno dell’anno?», continua Zappalà. «Perché altrimenti – va avanti il direttore artistico – si tratta di folklore, ovvero dello spettacolo a cui assistono i turisti. Oppure di una devozione paragonabile a quella del corrotto che va a messa soltanto la domenica. Quando ero piccolo la festa finiva molto prima, pur durando fino a notte fonda e a quell’ora il canto delle Clarisse era davvero magico. Adesso – dice Zappalà – tutto termina il mattino successivo. Come si fa dall’esterno – per un osservatore – a non pensare che sia soprattutto un business»?
Insomma, nonostante sia trascorsa una decade dalla prima esibizione di Agata, il coreografo catanese ripropone un quesito, semplicemente aggiungendo un punto interrogativo a quel Semu tutti devoti tutti che urlato in processione una volta l’anno sembrerebbe invece una retorica certezza. E lo fa cambiando ben poco, a parte un danzatore. «Anche gli esecutori adesso hanno la maturità giusta per affrontare la coreografia. Avendo in media raggiunto i 35 anni, possono andare molto più in profondità nel dialogo con il loro corpo, assumendo un’identità diversa. Contemporaneamente – spiega Zappalà – sono ancora abbastanza forti da sostenere una performance così dura fisicamente, dovendo sostenere Sant’Agata per tutto quel tempo».
Un’altra modifica riguarderebbe un monologo riadattato dal drammaturgo Nello Calabrò, che tiene conto dell’evoluzione di alcuni fatti di cronaca giudiziaria legati alle presunte infiltrazioni mafiose nella celebrazione della Santa, culminate con un’assoluzione in appello. «Si tratta di uno spettacolo legato anche ad alcuni fatti storici, che dieci anni fa sembravano indirizzati verso un’altra direzione. Era giusto raccontarne l’esito – precisa l’artista – essendoci stata una sentenza di proscioglimento in secondo grado».
Aggiornamento cronachistico a parte, Zappalà non sembra sposare l’idea secondo cui l’arte deve rinnovarsi sempre e non può essere riproposta in modo identico. Anzi, la riesumazione dello spettacolo «fa parte di un preciso progetto ontologico, che prevede la riproposizione di molte altre coreografie al compimento del loro decimo compleanno», specifica. Un ritorno fedele al passato, dunque, che però si preannuncia di maggiore impatto. Infatti, seppure meno profondo, il palco del teatro Stabile è dotato di un sistema di luci e acustica che ben si sposano con la musica rock accostata alla danza, controbilanciando l’assenza di quella perdurante intimità che resta, invece, il fiore all’occhiello di Scenario pubblico.