Dopo un post dell'ex generale dei carabinieri Gebbia, che rinnova la presunta contiguità mafiosa del padre delle tre donne, il legale Giorgio Bisagna ribadisce che si tratta di «informative e non di atti giudiziari. A Mezzojuso c'è lo stesso clima sociale di 50 anni fa»
Le sorelle Napoli difendono la memoria del padre «Accuse per spostare l’attenzione dalle denunce»
«Con questo stillicidio di denunce, di anonimi, di informative riesumate e che fanno riferimenti a fatti già accertati in sede giudiziaria come calunnie, mi sembra di essere tornati agli anni ’60. Il clima che si sta respirando oggi a Mezzojuso è esattamente lo stesso di 50 anni fa: le veline utilizzate come strumento politico, perché qui si vuole spostare l’attenzione dalle denunce delle sorelle Napoli». L’avvocato Giorgio Bisagna, il legale delle sorelle Irene, Gioacchino e Anna Napoli – divenute famose a seguito delle denunce di minacce mafiose che avrebbero subite sui terreni di loro proprietà nel palermitano – passa al contrattacco. E convoca una conferenza stampa dopo la deposizione a Roma dell’ex generale dei carabinieri Nicolò Gebbia.
Le accuse, riprese sul blog themisemetis.com con un post a firma dello stesso generale, sono pesanti. «Il metropolita ortodosso di Sarajevo, nell’estate del 2002 – scrive Gebbia – mi aveva rivelato confidenzialmente uno dei rifugi prediletti di Bernardo Provenzano: il monastero dei monaci di rito ortodosso di Mezzojuso. Aggiungendo che tale sistemazione era favorita dal capomafia locale, un certo Napoli, perché, vecchio e senza eredi maschi, considerava la presenza di Provenzano valido supporto della sua autorità, erosa dalla età anagrafica e dall’impossibilità di farsi coadiuvare dalle sue tre figlie femmine». Sembrerebbe cioè il ritratto del padre delle sorelle Napoli, che sono appunto tre e con un padre che è stato ritenuto dai carabinieri a quel tempo un «indiziato mafioso».
Con un’allusione ambigua e ripetuta. «Quel Napoli indicatomi dal metropolita era il padre delle sorelle così care a Giletti? Non lo so» scrive prima il generale, per poi ribadire in ogni caso che «quel Napoli di cui mi parlò era inteso col soprannome che gli aveva appioppato Luciano Liggio: “Diavolo Bianco”. Può essere utile a chiarirne l’identità oltre ogni ragionevole dubbio?». Accuse che vengono tirate fuori a pochi giorni di distanza dall‘audizione delle sorelle Napoli presso la Commissione Antimafia dell’Ars.
«Queste signore hanno denunciato, ci sono indagini e processi in corso – ribadisce Bisagna – alle sorelle Napoli è stato riconosciuto lo status di vittime del fenomeno estorsivo mafioso. E ora si tirano fuori veline riguardanti il padre. Ma perché? Non si tratta di atti giudiziari ma di veline, lo ribadisco. Le sorelle raccontano di un isolamento oggettivo e vengono messe loro sul banco degli imputati. A Mezzojuso c’è un clima sociale che non ha eguali in tutta la provincia di Palermo. Con un isolamento che il suo acme nella riproposizione di veline che riguardano fatti attinenti agli anni ’60 e i primi anni ’70. E che sono stati sconfessati già nel 1974 da una sentenza del tribunale di Palermo, che ha condannato per calunnia Francesco Paolo Bonanno, il quale aveva mosso le stesse accuse al signor Napoli».
Le stesse figlie di Salvatore Napoli difendono la memoria del padre. «Noi continuiamo nella nostra battaglia, non ci fermeremo mai, abbiamo vissuto momenti peggiori di questo – dicono – Negli ultimi anni della sua vita nostro padre è stato paraplegico, abbiamo tutti i documenti che lo attestano». Bisagna annuncia poi di aver depositato oggi due querele per diffamazione: una, molto probabilmente, è nei confronti dello stesso generale Gebbia; l’altra ha ancora il destinatario ignoto.