Pubblicato per la prima volta nel 1990, dopo 26 anni torna nelle librerie edito da Glifo. Un testo che restituisce l'uomo e il magistrato ucciso dalla mafia nell'83. Il figlio Giovanni: «Penso che negli anni si sia sentito solo, e lo era davvero»
L’illegalità protetta, il libro che racconta Rocco Chinnici Teresi: «È stato un vero pioniere dell’antimafia a Palermo»
«Dopo 26 anni ho sentito l’esigenza di riportare alla conoscenza questo testo, che ha sempre fatto parte della mia libreria». Un’esigenza che Donato Di Trapani non può ignorare. Parte attiva della fondazione Rocco Chinnici e nipote del giudice ucciso in via Pipitone Federico il 29 luglio ’83, ha raccontato i dettagli e il senso del libro L’illegalità protetta all’appuntamento di ieri pomeriggio alla biblioteca regionale. «Un testo che raccoglie i documenti, i discorsi tenuti ai convegni, il materiale interamente raccolto senza un’elaborazione dei giornalisti – prosegue -. La ripubblicazione è importante perché ci consegna un giudice unico, un giudice moderno, come lo ha chiamato mio zio Giovanni». La nuova edizione, edito da Glifo, raccoglie insomma i testi fondamentali e più rappresentativi del padre del pool antimafia, raccontando le sue intuizioni e la sua lungimiranza.
«Devo dire che i giovani, rispetto a quello che ero io dieci anni fa, oggi sono più consapevoli. Me ne sono reso conto portando io stesso il libro in giro anche per l’Italia – racconta ancora Di Trapani -. Penso che oggi manchi la figura di qualcuno che si rivolga a loro, andando al di là delle sterili narrazioni legate alle analisi e dei testi accademici, manca chi fa divulgazione. Si è diluita molto quell’epoca di giudici eroi e corleonesi stragisti, adesso c’è molto grigio e magari è più difficile da raccontare ma occorre farlo. Adesso le nuove generazioni anche grazie a questo libro, giunto già alla dodicesima presentazione, conosceranno la storia di mio nonno». Chinnici, originario di Misilmeri, era un profondo conoscitore della Sicilia. Entrato come uditore a Trapani, era stato per dodici anni prefetto di Partanna, riuscendo a conciliare incarichi di lavoro e famiglia.
«Prevale, tra le pagine del libro, l’aspetto umano e affettivo, e quel tratto di lui che mi ha aiutato forse più del resto, la sua capacità di infondere sicurezza e di trasmetterla a familiari e a amici. Insieme a questo – sottolinea Giovanni Chinnici, figlio del giudice – c’è la sua dedizione al lavoro e alla posizione personale e sociale. Passando al piano professionale posso dire che quella sua lungimiranza, che affondava le radici nella conoscenza della Sicilia, gli rendeva possibile interpretare il contesto in cui viveva. E poi era la sua indipendenza che gli permetteva di vedere le cose senza nessuna influenza politica». Chinnici fondò il pool nel 1980, chiamando al proprio fianco i giudici Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta, li scelse personalmente proprio nel momento in cui iniziò a capire i legami della mafia con quegli stessi ambienti politici dai quali riusciva a rimanere immune, distante.
«Mio padre – continua il figlio del giudice – individuò nei vertici istituzionali delle aree possibili di inquinamento. Nasce tutto da lì, da quell’attività svolta insieme ai magistrati. Sono stati anni difficili. Devo dire che con noi non parlava dei suoi processi, un po’ per proteggerci e un po’ per sua formazione personale. Penso che negli ultimi anni si sia sentito solo, e lo era. Il suo nuovo modo di intendere i processi, per cui era il magistrato a raccogliere gli elementi probatori e non solo la polizia giudiziaria, gli costò l’isolamento dei suoi colleghi». Isolamento che lo stesso Chinnici raccontò al Csm in un’audizione del febbraio 1982, durante la quale richiese non solo delle leggi specifiche per contrastare la mafia (il 416 bis che punisce l’associazione mafiosa entrerà in vigore solo dopo la morte del segretario provinciale del partito comunista Pio La Torre e l’uccisione del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa), ma anche un maggior numero di giudici in grado di occuparsi del fenomeno.
«Rocco Chinnici è pioniere dell’antimafia a Palermo – sottolinea Vittorio Teresi, procuratore aggiunto e fresco della nomina di presidente del Centro studi Paolo e Rita Borsellino -. Capisce soprattutto che quello è il momento per fare qualcosa di nuovo. Trova il coraggio di denunciare al Csm, malgrado l’atteggiamento indolente della magistratura, in qualche modo imposto dal codice. Io c’ero. Quasi tutti i magistrati stavano fermi in attesa che sulle loro scrivanie arrivassero i rapporti della polizia giudiziaria. A dispetto di una criminalità organizzata lui crea una magistratura organizzata». Ma Rocco Chinnici non è stato solo antimafia. Si spese molto, infatti, anche in una strenua campagna contro l’eroina, sullo sfondo di una Palermo anni ’80 dove i giovani che ci rimettevano la vita erano in tanti.
«Era preoccupato – conclude Teresi -, aveva ben capito che l’invio di tonnellate di droga in America e il contestuale arrivo di dollari aveva falsato il mercato in Sicilia. Il boom edilizio in quegli anni è stato figlio del grande traffico di stupefacenti. I mafiosi non si spaventavano di essere scoperti, perché tanto soldi e banche non venivano mai toccate. Mentre quei pochi costruttori che non erano mafiosi erano costretti a comprare il terreno destinato all’edilizia urbana a un certo prezzo, che poteva coprire solo ricorrendo al credito bancario con tassi altissimi. E questo è il motivo della guerra di mafia, lo spaccio era in mano alle famiglie palermitane dei Badalamenti, Gambino, Inzerillo, e quindi l’arrivo dei corleonesi in città è per un motivo strettamente economico». Questo era il quadro entro cui si muoveva il giudice Chinnici, un quadro intessuto di trame di illegalitá protetta.