L'ipotesi al vaglio degli inquirenti è che per lavorare in libertà la banda pagasse a Cosa nostra una quota sulle somme incassate. Ma alcuni esponenti delle cosche potrebbero esser stati interpellati dalle stesse vittime, all'inizio compiacenti, che dopo aver subito lesioni e fratture cercavano in questo modo di ottenere "giustizia"
La truffa spacca ossa per frodare le assicurazioni Sulle liquidazioni la mafia avrebbe chiesto il pizzo
Ci sarebbe il coinvolgimento di esponenti mafiosi, ma anche le richieste di aiuto a Cosa nostra di persone che, pur partecipando alle truffe alle assicurazioni, si sono sentite a loro volta truffate dai capi della banda. Sono due dei temi che gli inquirenti stanno cercando di approfondire nell’ambito dell’inchiesta sulle due organizzazioni criminali, legate tra di loro, (60 indagati in questo filone) che organizzavano falsi incidenti stradali spaccando le ossa di persone bisognose, che accettavano in cambio dei soldi, e che coinvolge anche un medico e un avvocato.
Dopo le decisioni dei gip di Palermo e Termini Imerese che hanno lasciato in carcere gli indagati fermati, a parte due (uno agli arresti domiciliari e l’altro con obbligo di firma), gli inquirenti stanno cercando nei bassifondi della criminalità prove per dare certezze al quadro indiziario che va oltre al dato acquisito. Alcuni gruppi criminali avrebbero dato la “compartecipazione” alle pratiche di falsi incidenti stradali (o le cedevano in cambio di alte percentuali sulle liquidazioni delle compagnie assicurative) a Michele Caltabellotta, la mente professionale della gang. Alcuni periti assicurativi, leggendo sui giornali che Caltabellotta farebbe parte della loro categoria, hanno voluto rimarcare che l’uomo è solo un consulente d’infortunistica stradale.
Che nell’operazione Tantalo fosse venuta fuori soltanto la punta dell’iceberg era chiaro un po’ a tutti. In conferenza stampa lo stesso capo della squadra mobile Rodolfo Ruperti ha dichiarato che gli undici arresti erano stati eseguiti «in fretta e furia», per evitare che i reati si perpetuassero. Perché «la catena di montaggio» delle truffe proseguiva a ritmo spedito. Tanto che spaccare lo ossa agli emarginati della città, reclutati soprattutto nella zona della stazione centrale, era considerato da alcuni un lavoro. Nelle 269 pagine dell’ordinanza a un certo punto un membro di una delle due organizzazioni dice proprio così alla moglie, mentre è al telefono: «Stanno ancora lavorando», mentre in sottofondo si sentano urla strazianti e rumori agghiaccianti. Lo confermano anche i racconti delle vittime agli inquirenti, pochi eppure pieni di particolari. Come nel caso di Francesca Calvaruso, che un giorno di marzo viene portata in un magazzino alla periferia di Palermo. «Dopo qualche minuto è uscito Mimmo (un’altra vittima, ndr) che piangeva per il dolore tenendosi il braccio sinistro … era arrivato il mio turno… mi facevano distendere sul pavimento bloccandomi il piede destro tra due mattoni – dice la donna -. Mi hanno precisato che avrebbero fratturato prima il piede, che era più doloroso, in questo modo il dolore per la frattura del braccio sarebbe stato meno intenso. A quel punto … sollevavano un peso da palestra e…me lo hanno lanciato sul piede. Subito dopo ripetevano la medesima operazione per fratturarmi il braccio».
Sempre ai giornalisti sia il questore di Palermo Renato Cortese che il capo della mobile non avevano parlato di Cosa nostra, limitandosi alle «organizzazioni criminali». E nel decreto di fermo dei pm che conducono l’indagine, la mafia viene citata soltanto tre volte: «Inoltre, il Santoro (uno degli indagati … ndr) accenna in maniera chiara alla presenza di alcuni ‘personaggi’ che potrebbero reagire con violenza alla mancata liquidazione del sinistro, così dimostrando l’esistenza di un ‘ulteriore livello’, (presumibilmente appartenente alla criminalità organizzata di stampo mafioso) quale destinatario finale delle quote maggioritarie degli introiti liquidati dalle compagnie assicurative».
E ancora, «la presenza di un ulteriore livello, capace di esercitare una fortissima pressione volta a non rinunciare ai lauti guadagni derivanti dalla organizzazione dei falsi sinistri. A tal proposito, particolarmente significative risultano le ultime conversazioni intercorse tra la Calvaruso, Mocciaro, Portanova (anche loro indagati, ndr), durante le quali questi ultimi appaiono a loro volta ‘terrorizzati’ per la possibile violentissima reazione degli appartenenti al predetto ‘livello superiore’ (verosimilmente composto da appartenenti a Cosa Nostra)». E poi quando i pm si soffermano sulla figura dell’indagato Antonino Di Pasquale, indicando «il suo spessore criminale superiore, il credito delinquenziale che gode all’interno di determinati contesti di criminalità organizzata qualificata, la circostanza che i soggetti che colloquiano con lui gli si rivolgono col voi e appellandolo “zio” in segno di ossequioso rispetto». La cosca mafiosa citata nel decreto è quella di Brancaccio, quartiere, peraltro, dove sono stati creati molti dei falsi incidenti.
È la domanda a cui stanno tentando di rispondere gli inquirenti: qual è il ruolo della mafia palermitana? L’ipotesi è che per lavorare in libertà la banda pagasse il pizzo sulle somme incassate dalle assicurazioni. Ma all’interno di questo contesto ci potrebbe essere di più. Alcuni mafiosi potrebbero esser stati interpellati dalle vittime, all’inizio compiacenti, che dopo aver subito lesioni e fratture non sono rimaste soddisfatte di quanto ottenuto. Un modo per ottenere giustizia e i soldi che invece le organizzazioni criminali trattenevano per se stesse. Alle vittime, infatti, venivano prospettati guadagni da 30mila euro e oltre, mentre invece, dopo aver ricevuto un anticipo di poche centinaia di euro, gli emarginati palermitani (soprattutto tossicodipendenti, alcolizzati, disoccupati e persone con difficoltà psichiche) venivano liquidati senza ricevere più alcuna risposta. E a volte l’unica soluzione che veniva loro prospettata era un’ulteriore frattura di un altro arto.