I giornali sono ancora gli ultimi difensori della verità in politica? E i social network li sostituiranno mai? Due domande al centro del dibattito su informazione e democrazia venerdì al Festival di Perugia
Il giornalismo è morto, viva il giornalismo!
Un anno fa, proprio a Perugia, Sandro Ruotolo disse, intervistato da Step1, che voleva essere «il cane da guardia dell’informazione». Una bella espressione, che quest’anno si declina in: «E chi può essere il cane da guardia della democrazia?». I giornalisti, dovrebbe essere la risposta scontata, ma Charlie Beckett, direttore di Polis, non la pensa così, e domanda ai suoi ospiti: «La democrazia ha realmente bisogno del giornalismo?». E, a giudicare dal titolo dell’incontro, “Democrazia senza giornalismo”, la domanda è retorica, a risposta negativa.
Adrian Monck, direttore del settore comunicazione del World Economic Forum, registra il fallimento degli intenti del giornalismo, negli ultimi venticinque anni, ma aggiunge: «Si fa quello che si ha la possibilità di fare. E tocca alla politica mettere le testate in condizione di potersi mantenere denunciando le magagne di governi e ministri, eppure le istituzioni non sembrano avere alcun interesse a dedicarsi all’informazione, e credo che il problema primario sia proprio questo».
«Non è bypassando il confronto con i giornalisti che si fa la democrazia, per questo non riuscirei neanche a immaginarla, senza», lo contraddice Marco Pratellesi, direttore dell’area digital di Condé Nast Italia. E continua: «Quando la politica informa direttamente i cittadini, senza alcun filtro dei media, si verifica qualcosa di straordinariamente simile alla propaganda». Non è che i politici debbano restare fuori dai meccanismi di contatto diretto con il loro elettorato, «è che loro non verificano quello che dicono, tendono a mistificare, e lo stesso fanno i cittadini. Mentre il compito dei giornalisti è proprio quello di mettersi in mezzo, no?»
«No, o meglio, non credo che sia del tutto vero», gli risponde Paul Staines, aka Guido Fawkes, il fondatore di uno dei blog più letti del Regno Unito. «Sono convinto che la democrazia non farà a meno del giornalismo, però si adeguerà ai cambiamenti del meccanismo della comunicazione. Il fatto è che la maggior parte dei giornalisti sono generalisti, e il loro bagaglio culturale non serve ai lettori, perché è simile al loro. Servirebbero più professionisti specializzati, che diano la possibilità di approfondire. Inoltre, è ormai vecchia l’idea secondo la quale solo i giornali tradizionali possono salvaguardare la democrazia. Come la mettiamo con le notizie che non vengono date proprio perché si vuole evitare di diffondere certe informazioni?».
«È per questo che non leggo i giornali e non guardo la televisione da un sacco di tempo», gli fa eco Stephan Shakespeare, co-fondatore di YouGov, il portale partecipativo che diffonde notizie politiche da tutto il mondo, ormai. «Per informarmi, uso Twitter; per farmi un’opinione sulla politica, leggo i blog. Quello che voglio dire è che non c’è molta differenza, ormai, tra un utente consapevole dei social network e un giornalista».
Vero o falso non ci è dato saperlo, certo è che in Italia, fa notare Pratellesi, la situazione non è assimilabile a quella di qualunque altro Paese europeo. «E le informazioni subliminali che passano durante i vari Drive In e che la fanno da padrone? Trovo che i giornali abbiano ancora un’autorevolezza massima. E cosa ho per dimostrarlo? I commenti agli articoli pubblicati online, quelli costruttivi, quelli che correggono il giornalista di turno e lo invitano a migliorare. Se uno non si fidasse, né ci credesse, che senso avrebbe stare là a perfezionare il suo lavoro»?