Dopo mesi di indagini e documentazioni serrate, in giro tra Palermo, Roma, Svezia e Nord Africa, il giornalista Ben Taub è riuscito a parlare telefonicamente con colui che dice di essere il Generale, l’uomo ricercato dal naufragio del 2013 e che, secondo gli inquirenti, sarebbe detenuto al Pagliarelli da oltre un anno
Caso Mered, il vero trafficante parla al New Yorker «Un giorno, se mi prendono, la verità verrà fuori»
«Un giorno, se mi prendono, la verità verrà fuori». Si chiude così una telefonata durata circa tre ore fra il giornalista del New Yorker Ben Taub e colui che sostiene di essere il vero Medhanie Yehdego Mered, uno dei peggiori boss della tratta di migranti, il Generale, ricercato dalle forze di polizia di mezza Europa dal naufragio del 3 ottobre 2013 avvenuto a largo di Lampedusa, che causò 368 morti accertati. «Questi governi europei – sbotta – hanno una loro tecnologia che è così valida, ma non sanno niente». Per riuscire a ottenere questo contatto telefonico, realizzato grazie all’aiuto di un intreprete, il cronista del New Jersey incontra prima la moglie di Mered, Lidya Tesfu, personaggio chiave dell’intera vicenda, perché è dal suo profilo social che prende forma buona parte dell’impianto su cui si fonda Glauco II: nomi, contatti, messaggi, fotografie. Taub trova il numero e l’indirizzo della donna consultando i documenti in possesso dei magistrati italiani. Si incontrano in una caffetteria in Svezia, dove Lidya vive col suo bambino, il figlio avuto con Mered. Non sa dire dove si trovi suo marito, ma rivela che la chiama una volta al mese. «Segue il caso», dice al reporter. «Continuo a dirgli che dobbiamo fermare tutto questo, “devi contattare gli italiani”», gli racconta ancora la donna.
Solo due mesi fa, Lidya Tesfu aveva dichiarato, attraverso MeridioNews e il Guardian, di non riconoscere l’uomo attualmente detenuto al carcere Pagliarelli di Palermo. «Quest’uomo non è mio marito», aveva risposto secca di fronte a una sua fotografia. «Tutto quello che so di Medhanie Tesfamariam Berhe – questa l’identità sostenuta sin dall’inizio dal giovane arrestato a Khartoum il 24 maggio 2016 – è che non è mio marito. L’ho conosciuto solo su Facebook, ma non so nient’altro di lui. Non ci siamo mai visti né conosciuti da nessun’altra parte». Le autorità italiane e inglesi sono arrivate al giovane eritreo attualmente sotto processo insospettiti dal nome Medhanie Meda, il suo contatto Facebook, presente tra gli amici di Lidya: «Questo significa che tutti i miei contatti di nome Medhanie sono mio marito? – aveva risposto lei – È un crimine dire una cosa del genere». Sono i primi giorni di luglio ed ecco che il telefono di Taub squilla. È Mered. Racconta al giornalista i dettagli delle sue attività, i problemi legati ai suoi affari e la sua posizione durante i sette anni precedenti, con alcune prudenti omissioni. «La sua versione dei fatti calza a pennello con quella che ho appreso, riguardo a lui, dai suoi primi clienti, da sua moglie e da quello che era sia presente che curiosamente mancante nei documenti della Corte italiana», scrive il giornalista. Tuttavia, Mered si lascia scappare quasi con una punta di orgoglio alcuni dettagli, mentre ne edulcora altri potenzialmente dannosi per lui, negando il fatto ad esempio di essere mai stato armato.
«Mered mi ha detto che nel dicembre 2015 è stato arrestato con un nome diverso per aver usato un passaporto eritreo contraffatto – scrive il reporter – Lui non avrebbe specificato in quale paese si trovava, ma l’intercettazione della chiamata di suo fratello, quella che si riferiva al ritorno in ritardo di Mered da Dubai, suggerisce che lui fosse stato probabilmente catturato negli Emirati Arabi Uniti. Sei mesi più tardi, quando Berhe è stato arrestato a Khartoum, Mered ha appreso della sua presunta estradizione in Italia da alcune voci che circolavano in prigione». Secondo quanto riferito a Taub, Mered riesce a uscire di galera grazie all’aiuto di un fidato collaboratore, che ha fornito alle autorità locali un ulteriore passaporto falso, che ne attestrebbe una fittizia nazionalità ugandese. Uno stratagemma che gli vale il rimpatrio in quella che dovrebbe essere la sua terra d’origine. Luogo dove potrebbe anche essere nascosto ancora oggi. «Il tempo che ha trascorso in prigione spiega perché le intercettazioni italiane sul suo numero sudanese non hanno colto nulla nei mesi che hanno preceduto l’arresto di Berhe – si legge ancora sul New Yorker – E spiega anche perché, quando le autorità italiane hanno chiesto a Facebook di inviargli i dati di accesso di Mered, ci fosse un vuoto corrispondente a quel periodo».
«Durante la nostra telefonata – scrive sempre Taub – Mered ha manifestato stupore rispetto a quanto poco abbiano capito gli italiani sulle forze che guidano la sua impresa. Non c’è nessun codice d’onore fra i trafficanti, nessuna gerarchia simile alla mafia da dover fermare. Solo soldi, manovre, rischio e morte». Così avrebbe detto Mered, puntando il dito proprio contro l’idea di partenza delle indagini rivolte al traffico di esseri umani: quella di applicare all’organizzazione criminale che fa partire clandestinamente i migranti alla volta dell’Europa metodi e mezzi impiegati nel contrasto a Cosa nostra. In modo da colpire i boss più potenti per indebolirne a poco a poco gli affari. Tuttavia, però, tolto Mered, i migranti oggi continuano a essere ostaggio di un business che ancora è fiorente e che prosegue inesorabile a mietere vittime invisibili.