In che Stato è la mafia? La versione dei magistrati «Le istituzioni non hanno voluto vincere la guerra»

«Il sistema mafioso è ancora vivo, pericoloso e costituisce un gravissimo e non più tollerabile fattore di condizionamento e compressione della nostra democrazia. Lo Stato non ha saputo, anzi, non ha voluto vincere la guerra. Si è accontentato di vincere alcune importanti battaglie, soprattutto sul piano della repressione dell’ala militare delle organizzazioni, ma ancora non è stato fatto quel salto di qualità necessario». Parla così il sostituto procuratore Nino Di Matteo, intervenuto ieri sera alla facoltà di Giurisprudenza in occasione del dibattito organizzato da AntimafiaDuemila, in collaborazione con ContrariaMente e Rum. «La vera e più antica forza della mafia risiede nella capacità di ieri e di oggi di intrattenere rapporti col potere politico, istituzionale, imprenditoriale e finanziario – spiega – Oggi più che mai sistema mafioso e corruttivo sono due facce della stessa medaglia criminale e noi ci troviamo a combattere una guerra con armi spuntate, muovendo da una piattaforma normativa strabica e parzialmente inadeguata». È molto duro il pm del processo trattativa, e punta il dito soprattutto contro la classe politica che, tirando le somme, a 25 anni dalle stragi del ‘92 non ha ancora fatto della lotta a Cosa nostra una delle sue battaglie principali.

«Decisivo per il salto di qualità rimane il nodo fra mafia e politica – torna a dire – Se c’è una cosa che ho imparato in questi 25 anni è che loro, le teste pensanti dell’organizzazione mafiosa, hanno ben chiaro che la loro vera forza risiede nella capacità di intrattenere questi rapporti. Provo amarezza e preoccupazione nel constatare l’assenza di una speculare e contraria consapevolezza istituzionale e politica sulla necessità di recidere una volta e per tutte ogni possibilità di rapporto tra mafia e potere». Una politica alla quale Di Matteo rimprovera soprattutto il fatto di aver, finora, delegato alla magistratura, abdicando a un suo ruolo primario, «ha preferito fingere di non capire che certe condotte devono essere considerate censurabili». A preoccuparlo, adesso, è anche quella che definisce «posizione negazionista che tenta di accreditare la tesi che i rapporti tra mafia e politica sono solo nella mente di magistrati politicizzati. Un orientamento strategico e insidioso – continua – fin dai tempi di Falcone e Borsellino». Prima di lui il collega Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto a Reggio Calabria aveva messo addirittura in discussione l’approccio investigativo del passato: «Per molti anni abbiamo privilegiato una visione sbagliata, è stato necessario rimettere in discussione anche quello che era risultato all’interno di processi importanti e soprattutto è stato necessario rispondere ad alcuni quesiti diventati concreti solo dopo».

A cambiare, insomma, deve essere l’approccio all’intero lavoro di magistrato, secondo Lombardo, la cui dignità «è quella di colui che non si accontenta, così come non vi accontentate voi cittadini. Può costarmi sacrifici personali, ma non c’è un altro modo di fare questo lavoro, non c’è. Quando qualcuno mi chiede ‘ma come fai?’, mi verrebbe da chiedere ‘ma come fai tu a non fare?’», conclude emozionandosi. Al suo fianco siede anche Gianfranco Donadio, componente della Commissione Moro, che della strage di via D’Amelio racconta un particolare troppo spesso rimasto in ombra, quello della pista del telecomando Telcoma: «Una pista inesauribile e agghiacciante per comprendere a quale livello Cosa nostra riuscì a giocare la sua partita stragista – racconta – Non è certo la favola del telecomando giocattolo nelle mani di Giovanni Brusca, è un meccanismo grande come un’autoradio, adoperato nel deserto per scavare i pozzi petroliferi o in operazioni militiari estremamente sofisticate. Tra i tanti elementi che caratterizzano via D’Amelio, probabilmente la storia del Telcoma è una quella che vale la pena ricordare anche 25 anni dopo, continua a darci sorprese non prevedibili e ripresa anche nel processo Borsellino bis». Di questo telecomando, modello Thu, restano sul luogo della strage quattro frammenti, che permettono agli inquirenti di risalire al periodo di fabbricazione e a realizzare unamappa dei soggetti che lo producevano.

Duro anche l’intervento dell’ex pm Antonio Ingroia, che subito sottolinea come, dopo 25 anni, Palermo sia non solo «orfana di Paolo Borsellino, ma anche della verità». Secondo lui, dopo le recenti vicende della cronaca giudiziaria, quella che stiamo attraversando sarebbe la fase «del revisionismo, in quanto al sistema criminale non basta che siano rimasti dei buchi neri su stragi e delitti eccellenti. Adesso i mafiosi cominciano a sperare che ci sia una revisione pronta per loro», alludendo alla recente decisione della Cassazione di annullare la sentenza di condanna a Bruno Contrada, ex numero due del Sisde. «Se siamo arrivati a dire che il concorso esterno in associazione mafiosa è diventato un reato inesistente, chissà se si arriverà a dire che anche l’associazione mafiosa è un reato inesistente, magari tornando all’epoca in cui non esisteva la mafia». 


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