Enzo Moretto, leader della band campana venerdì sul palco dei Mercati Generali - ci parla dell' ultimo lavoro Midnight Talks, d'amore, di musica indie e del coraggio di Roberto Saviano
Le notturne conversazioni degli A Toys Orchestra
E’ possibile essere un artista degno di fama e riconoscimenti senza passare su Mtv? Oppure, è possibile per un italiano cantare in inglese, risultando credibile piuttosto che vittima della sindrome “tu vo fa’ l’americano”? Probabilmente se si chiedesse ad un qualsiasi quindicenne direbbe di no. E invece… Bastano pazienza e curiosità per scoprire perle come gli A toys orchestra, quartetto campano (Enzo Moretto, Ilaria D’Angelis, Raffaele Benevento, Andrea Perillo) dalle sonorità indie e dalle sfumature malinconiche che, tra premi e colonne sonore, è giunto al suo quarto lavoro. Si chiama Midnight Talks ed è un disco sospeso tra “ieri e domani” come ci racconta il cantante e chitarrista Enzo Moretto.
Partiamo dal titolo. Perché Midnight talks?
«Potrei dirti perché tutte le canzoni e i testi sono nati dopo la mezzanotte… Ma, in realtà, la “mezzanotte” del titolo è in senso onirico una sorta di buco temporale sospeso, un limbo tra l’oggi e il domani, tra passato e futuro, senza una collocazione ben precisa che impregna di incognite i suoi “dialoghi”».
Cosa differenzia quest’ultimo lavoro dai precedenti Job, Cuckoo, Boohoo e Technicolor dreams? Si nota una certa componente rock …
«Tutti i nostri dischi sono differenti tra loro, è il nostro approccio alla scrittura che detta il desiderio di rinnovarci ogni volta. Si tratta di un impulso spontaneo, non siamo così celebrali da ponderare troppo in prospettiva.
Prima di scrivere questo ultimo disco venivamo da un lungo tour… Probabilmente abbiamo mantenuto quel tipo di feeling “rock” che caratterizza il live».
In Plastic Romance canti di un amore di plastica, per certi versi simile a Coin operated boy dei Dresden Dolls, ma tu come vivi l’amore?
«Plastic Romance è il racconto di un ragazzo che si innamora di un manichino… E’ una storia complicata sul desiderio d’amore, nel volerlo dare e volerlo ricevere, nell’illusione e nella perdita.
Io vivo l’amore facendomi travolgere da questo sentimento con tutte le conseguenze del caso, in positivo e in negativo; negli anni ho imparato però a dare alla parola “amore” tante diverse accezioni. Troppo difficile poter relegare questo sentimento solo nell’ambito della vita di coppia».
Red Alert invece ricorda Mean Mr. Mustard dei Beatles, band che riecheggia spesso nei vostri lavori. A parte il pluri-citato paragone con i Blonde Redhead, quali sono le vostre principali influenze musicali?
«Cavolo! “Mean Mr Mustard” ! Fantastico! ..Ed effettivamente hai anche ragione! Il basso ha un groove molto simile: vabbè la lezione dei Beatles si protrarrà nei secoli. Noi siamo degli alunni attenti ma anche rispettosi, nel senso che non potremmo mai svilire i nostri maestri ricalcandoli pedissequamente, piuttosto facendo tesoro del loro insegnamento. E vale anche per altri. In realtà non ci sono delle influenze “principali” ma semplicemente delle influenze che possono essere colonne portanti della storia del rock o band attuali. Tutto quello che ci piace provoca uno stimolo che inevitabilmente finisce per lasciarci qualcosa. Questo concetto è applicabile anche oltre la sola musica va dal cinema fino alla vita reale tutto può finire per influenzarci».
I tuoi testi sono sempre ricchi di un’emotività molto “dark”, narri di dolore, amoe e angoscia senza però cadere nell’autocommiserazione. Da cosa ti lasci ispirare quando scrivi?
«Quando sto per creare il testo di una canzone non so mai cosa sto per scrivere, non mi approccio mai avendo già un idea precisa per la testa. Alle volte scrivo più di getto, altre necessito di tempi molto lunghi e spesso succede che non bado al significato di quello che sto scrivendo, per ritrovarlo dopo. Una sorta di dettato del subconscio. Eccetto quando scrivo delle storie, come Hengie, Mrs Macabrette, Plastic Romance, o Frankie Pyroman. In quel caso, quando capto l’intuizione, mi devo catapultare in una realtà parallela in cui anche i dettagli sono fondamentali: materializzare dei personaggi, creare delle “vite”. In effetti per me è difficile pensare a questi personaggi come al solo frutto della fantasia, le loro storie sono così radicate in me al punto che li percepisco come reali, probabilmente in giro per il mondo ci sono centinaia di Hengie e Mrs Macabrette…».
Voi siete campani. Cosa pensi del fenomeno “Gomorra”? C’è stata e continua ad esserci molta attenzione sulla denunci di Roberto Saviano. Qual è la tua opinione riguardo alla realtà che la tua regione, ma non solo, continua a vivere?
«Savdove la paura condiziona le vite. Per uscire dall’omertà non basta la sola moralità, ma serve una enorme dose di coraggio. Il fatto che Saviano vive sotto scorta è emblematico, ribellarsi può costare molto caro; c’è un impero del terrore che coinvolge milioni di persone o assoggettandole o reclutando nuove leve e spesso il dramma sta proprio nel fatto che il miraggio della “salvezza” sta nell’affiliazione. Il fatto che non esista neppure una vera tutela tangibile da parte dello Stato fa sì che la leggeiano ha semplicemente aperto gli occhi a chi li teneva chiusi o fingeva di non vedere; non è facile vivere in posti del più forte stia diventando uno stile di vita, a discapito della stragrande maggioranza del popolo onesto. E’ un discorso troppo lungo e complicato e forse troppo grande e Saviano con grande sacrificio ha abbracciato questa croce».
Però, persone coraggiose come Saviano non sono così frequenti nell’Italia di oggi. Dove ci porterà questa mancanza di libera informazione?
«Ci portrà dove già siamo… In un informazione pilotata e servilista».
E la musica? Che ruolo ha in tutto questo?
«La musica in parte è ancora del popolo. La parola “pop” deriva da “popular” per cui potenzialmente ha un ruolo sociale e aggregativo. In realtà però da anni questa sua funzione è andata scemando; non so se nel 2010 la musica sia ancora capace di mettere in piedi delle rivoluzioni culturali come fu nei 60/70/80».
Tornando a parlare di musica. Sebbene non suoniate esattamene come la classica band “all’italiana”, pensi sia solo frutto di un pregiudizio pensare che sia difficile per i gruppi di casa nostra competere con quelli inglesi o americani?
«E’ effettivamente un dato di fatto. In Italia siamo un po’ vittime e un po’ carnefici di un complesso che non riusciamo del tutto a superare. Si prenda ad esempio la Francia con gli Air, il Belgio con i dEUS e i Soulwax, la Germania con i Notwist e i Lali Puna, l’Islanda con i Sigur Ros per non dire Bjork, la Svezia con gli Hives, la Norvegia con i Motorpsycho, eccetera eccetera. C’è bisogno di abbattere questo limite culturale e aver maggiore coraggio di slegarsi dal campanilismo e proporsi come esponenti dell’Europa di cui siamo effettivamente parte. Serve maggiore coraggio e sostegno da parte di chi ha il coltello dal lato del manico».
L’indie rock, invece, è ancora vivo?
«Indie per me ha un solo significato: “indipendente”. Ed evidentemente noi siamo una realtà di quel tipo. Quello che prima veniva considerato “per pochi”, oggi è diventata una realtà significativa capace di far contrapposizione al mainstream. C’è una macchina produttiva formata da band, etichette, media, promoter, locali e soprattutto un cospicuo pubblico che stanno a testimoniare che questa è una realtà viva e vegeta, costantemente in crescita. Quello che un tempo era “di nicchia” oggi ha una significativa rilevanza: se poi vogliamo intendere l’indie come un genere allora non so cosa dirti, visto che ad oggi potrebbero essere indie Dente o gli Zu indistintamente, non saprei su che coordinate basarmi».
Un’ultima curiosità: come sta Mrs Macabrette?
«Fuma ancora sigarette, bruciando le foto del suo matrimonio».