Disillusi ed egoisti come solo chi ormai ha poco da vivere. Convinti che questo è e questo ci dobbiamo tenere. E se invece cominciassimo a parlare e a comunicare le nostre idee a vicini di casa, compagni di scuola o stronze signore in doppia fila?
Nasciamo vecchi, ma possiamo crescere
Immaginiamo che tutti i catanesi, tutti, un bel giorno ricevano una lettera. Imbucata nella posta, tra le pubblicità e i fogli della banca. Proprio una per persona, niente collettivi familiari.
Presi alla sprovvista, leggono: “Caro/a cittadino/a, così non si può continuare. Bisogna reagire, fare qualcosa per Catania. Lei che propone?”.
Immaginiamo la scena seguente. Una buona percentuale cestina la missiva pensando a qualche mittente un po’ matto. O più probabilmente a una trovata elettorale.
Altri magari la rileggono due o tre volte, chiedendosi cosa sarà mai successo di nuovo. Quelli che capiscono, sospirano sfiduciati e appallottolano la carta.
C’è poi chi, la maggioranza, tra l’indignato e lo stralunato esclama: “Perché? Che c’è che non va?”.
Un centinaio, a voler essere generosi, prendono a loro volta carta e penna e scrivono alcune righe. Tra questi ci siamo noi e tutti quelli che hanno contribuito al volume.
Catania è bella. Catania è stronza. Catania è puttana, ma forse ormai più escort. Catania, in realtà, non esiste. Sono i catanesi ad esistere. Noi. Non noi e loro, noi che rispondiamo e loro che gettano la lettera. Tutti.
Qui, per me, sta il problema. Ma anche la sua soluzione. Il punto non è come cambiare Catania, ma come far crescere e divampare questa necessità. Il resto, d’altronde, andrebbe da sé.
Si guarda spesso alle responsabilità della classe politica e amministrativa della città. Ma gli elettori? Non sono certo tutti spinti dalla necessità del pacco di pasta aggratis. E in certi casi nemmeno troppo dal clientelismo. Sono convinti delle loro scelte, convinti del loro stile di vita, convinti che tutto vada bene com’è. Certo, due piante qua e là non farebbero male, ma si può vivere anche senza, no? D’altronde finora lo abbiamo fatto. Cu si fa i fatti so’ campa cent’anni.
Lo so, sembra impossibile. Come fanno a non vedere quello che a noi sembra lampante, invasivo, distruttivo? Come fanno a non pensare che si sta raschiando il fondo? Come fanno a non accorgersi che tutto questo ha e avrà delle conseguenze forse irrecuperabili?
Dobbiamo sforzarci di capire, discutere, rispondere e spiegare. Fare finta che questi nostri concittadini non esistono o sono solo una minoranza non servirà. Fare finta di non sapere che non tutti sono collusi o accondiscendenti verso un certo sistema, ma solo indifferenti e disinformati, non porterà mai alla soluzione. Discutere sempre e solo con chi sappiamo già che condivide la nostra idea sul degrado cittadino non fa crescere.
Non che sia semplice. E non bisogna neppure guardare troppo lontano. Chi non ha in famiglia qualcuno che non si rende conto che avere un solo giornale è quantomeno strano? Chi non ha tra gli amici qualcuno che non va a votare da un pezzo? Mi è capitato di sentirmi dire da un’amica, mia coetanea, “Per ora sei così, voglio vedere quando cresci”. Lo dice sempre anche mio padre. Eccolo il problema: i catanesi nasciamo vecchi. Disillusi ed egoisti come solo chi ormai ha poco da vivere. Convinti che questo è e questo ci dobbiamo tenere. Come sono riusciti a campare prima, faremo anche noi. E i nostri figli.
Ma, nonostante io vada crescendo, resto convinta che non tutto è perduto. Basta cambiare metodo.
I comportamenti individuali sono certo importanti e servono d’esempio. Ma non è sufficiente. L’indifferenza va stanata, portata alla luce e bruciata. Se per cento catanesi che ricevono quella nostra fantasiosa lettera ce ne fosse uno, solo uno, disposto a suonare il campanello del suo vicino di casa e chiedere cosa ne pensa, saremmo già sulla buona strada. Parlare, spiegare, discutere.
Non al chiuso. Non negli atenei, nelle sale conferenza, nelle nostre case. Lì non ci va nessuno, e lo sappiamo. Parlare e discutere per strada, al bar, alle casse del supermercato, alle fermate dell’autobus. Prendete l’Experia. Ho conosciuto gente che abita di lì a un passo e non aveva mai voluto mandarci i propri figli. Non sapeva cosa ci si facesse dentro, aveva paura. Adesso che i ragazzi del centro sono stati costretti al doposcuola per strada, alle tombolate sulle scale e alle feste sui marciapiedi, quella signora e suo marito hanno visto, sentito e apprezzato. Stavolta hanno sorriso dal balcone di casa loro, anziché chiudere le finestre e abbassare le serrande. La prossima magari si uniranno ai ragazzi e alla gente del quartiere.
E allora voi, professori, le lezioni in piazza fatele più spesso. E anche gli esami per strada, ché stiamo più rilassati. E quando noi studenti non capiremo più una parola a causa del traffico, staremo più attenti alla guida. Senza strombazzare, sorpassare a destra coi motorini o rischiare di stirare le vecchiette.
Abbiamo posteggiato in Corso Italia e ci troviamo davanti una splendida auto in doppia fila? Alla signora che esce dalla boutique non urliamo i primi improperi che ci vengono in mente. Diciamo soltanto: “Ma lo sa che l’aria condizionata le secca la pelle? Se andasse a piedi entrerebbe in una splendida 42”. Con un sorriso.
Quanti genitori, infine, piangono e sospirano perché i loro figli si sono trasferiti fuori? A Milano, a Roma o a Madrid e Londra, per loro è lo stesso. Perché non è più Catania. Adesso siamo noi, domani saranno i nostri di figli. Colpa del fato? No.
“Mamma, papà, voi cosa avete fatto per cambiare tutto questo? Per non costringermi ad andare via?”.
Claudia Maria Campese, 23 anni, alumna della Facoltà di Lingue e letterature straniere di Catania, frequenta il primo anno della Scuola di giornalismo Walter Tobagi, Universita’ Statale di Milano/Ifg. Ha un blog sulle donne e la loro immagine trasmessa dai media (link claudiacampese.wordpress.com)