Antonio Ingroia, pm antimafia di Palermo, incontra gli studenti catanesi alla Facoltà di Giurisprudenza per parlare dei rapporti tra cosa nostra, politica ed economia. E sul lavoro dei magistrati dice:Non cerchiamo il consenso dei cittadini, ma una loro reazione contro il fenomeno malavitoso
Prima che ci risveglino le bombe
La fattispecie di associazione di stampo mafioso: cosa nostra e i suoi rapporti con il mondo della politica e dell’economia. Questo il titolo dell’incontro tenutosi lo scorso giovedì nell’aula magne della Facoltà di Giurisprudenza, promosso dall’associazione AddioPizzo Catania nell’ ambito del corso di formazione alla Cultura della legalità.
Ospite d’onore Antonio Ingroia, sostituto procuratore della Repubblica alla Direzione distrettuale Antimafia di Palermo. L’evento merita attenzione e la platea mostra il suo interesse accogliendo l’ospite con garbato silenzio, mentre arriva scortato da più di cinque uomini, in un’aula gremita non solo di studenti.
Poche parole introduttive. Come dice la proferessa Anna Maria Maugeri, docente ordinario di Diritto penale: “Il nostro ospite non necessita di alcuna presentazione”.
Sollevando gli occhiali dal naso, Ingroia saluta i presenti e si schermisce. Subito gli viene rivolta una domanda secca: “Perché la reazione dello Stato, storicamente, è stata molto più decisa nei confronti del terrorismo politico di quanto, invece, non lo sia stata nei confronti della mafia?”.
Ingroia comincia ricordando “come sia stata tardiva la comprensione del fenomeno mafioso inteso in tutta la sua pericolosità da parte delle autorità, ma soprattutto da parte dell’opinione pubblica. Mentre il terrorismo è stato avvertito come entità estranea ed anomala rispetto al tessuto sociale e quindi realtà immediatamente qualificabile sin dall’inizio. La mafia – sostiene il Pm – inizialmente, è stata apprezzata quasi come una manifestazione fisiologica della stessa società e, in quanto tale, tollerata. Il tutto, peraltro, traspare anche dal vivace dibattito giuridico dottrinale degli anni del secondo dopoguerra, se pur difficile da concepire ad oggi”, ha spiegato. “Allora si metteva addirittura in dubbio l’illecità del fenomeno stesso”, conclude Ingroia.
Il magistrato non cede alla tentazione della ”lezioncina accademica” e, dopo aver brevemente delineato la storia del fenomeno mafioso, dal codice napoleonico ad oggi, si sofferma su un’analisi delle connessioni tra mafia e politica. “In ogni stagione gli orientamenti politico-culturali hanno influenzato la produzione legislativa, lasciando intravedere come spesso sia l’onda dell’emozione ad accelerare i farraginosi processi di produzione normativa. Non è un caso – precisa – che il 416 bis, che colpisce oggi chi fa parte della nuova fattispecie di associazione di tipo mafioso, solo in quanto membro, sia stato approvato 20 giorni dopo l’omicidio del generale Dalla Chiesa, nonostante il disegno di legge giacesse da mesi in parlamento. Correva l’anno 1982”.
Figlio della nuova legge è il maxi-processo, che rappresenta una reazione dello stato alla stagione delle stragi e dei delitti politico-mafiosi degl’anni ’70-’80. Ingroia spiega come questo sia il periodo in cui si leva dal basso un vero e proprio movimento di protesta che mette in mora la politica, la quale, finalmente, fornisce ai magistrati strumenti efficaci di lotta alla mafia. “Una reazione sociale -prosegue il pm- che raggiungerà forse il suo apice in seguito alla stragi del 92′ quando, ancora per opera delle cosche palermitane, ad essere assassinati sono i giudici Falcone e Borsellino, ma che da allora è andata ad affievolirsi – complice anche una mafia divenuta nel frattempo più silenziosa se pur non meno letale – lasciando arenare i buoni propositi di una classe politica oramai assuefatta al compromesso”.
“I magistrati non hanno bisogno del consenso dei cittadini, ma di una loro partecipazione nella formazione di una coscienza collettiva che sia in contrasto con il fenomeno mafioso“, ricorda Ingroia. Il pericolo, invece, proviene dal grande sonno che, ad oggi, sembra capace di conturbare ogni coscienza. Con l’auspicio che non saranno le bombe a saperci risvegliare.