Cecità

«Che la paura cambi di segno. Siano ricchi e potenti a tremare, noi a ballare». Se però l’ordigno avesse funzionato, a tremare sarebbero stati il portinaio e gli studenti del Pensionato Bocconi. Quindi, con le dovute eccezioni, persone poco ricche e poco potenti. Nessun padrone.

Se si voleva colpire soltanto un simbolo, quel tunnel da poco imbiancato e del tutto accessorio alla vita universitaria, quella ferita nel muro da cui passano i cavi per l’elettricità – incontrata ogni giorno per cinque anni e mai notata – sono il simbolo perfetto di quanto i fanatismi facciano perdere la mira. Un movente legittimo, sacrosanto (la chiusura dei Centri di Identificazione ed Espulsione), completamente slegato dal mezzo e dai suoi prevedibili effetti: uno spavento, chiamate di padri impensieriti e madri preoccupate, una notte insonne prima di un esame – tutto qui. Che i nemici del popolo fossero banchieri, politicanti, imprenditori, professori della Bocconi, questi non sarebbero stati svegliati da una bomba nè dai sensi di colpa di una lettera dal sapore antico.

Se i difensori del popolo, invece, si fossero interrogati più a lungo del tempo necessario a fabbricare un congegno difettoso, avrebbero invece concluso che ogni scuola è un luogo di incontro. Che ognuno vi entra cercando una risposta alla domanda socialmente più importante: «Cosa posso, cosa devo fare?». Se c’è chi, seguendo Friedman, limita al profitto la propria responsabilità sociale, c’è anche chi si occupa di lasciare il proprio segno, con mezzi non eversivi ma pragmatici. Lo lascia costituendo associazioni, se è uno studente. Oppure lo lascia facendo ricerca, organizzando partnership con istituzioni no-profit, con le attività culturali che corroborano il senso civico. Questo è la scuola, questo è l’università, non certo il bersaglio da colpire se si vuole sollevare una questione seria come il trattamento offerto ai migranti dal nostro Paese.

Peggio. L’azione dimostrativa tende a dimostrare soltanto un concetto ripugnante e pericoloso: «a mali estremi, estremi rimedi». La paura, la violenza verso deboli o potenti a ritmo alterno, la nonchalance per i peccati di amici e la ferma condanna di quelli nemici. Le ondate di rabbia popolare contro i Rom, i linciaggi e fisici, le torture nelle celle delle prigioni, il lancio di oggetti contro gli scranni degli avversari, le ferite del Primo Ministro. Frutti, questi, del senso di frustrazione e dell’arroganza di chi vuol fare giustizia, anziché ottenerla con la tenacia dei veri eroi.

Che la nostra Università, colpita da quest’arroganza e da questa frustrazione, dia una risposta concreta e positiva. Che si incoraggi al dibattito fra studenti, fra professori, sulla nostra missione oltre che sulla mission. Per dimostrare che la serenità ottiene molto più della rabbia.


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