In scena al Gapa lo spettacolo scritto e recitato da un abitante di quella che avrebbe dovuto essere la città satellite di Catania. E si è trasformata in un luogo dove perfino tirare quattro calci a un pallone è diventata, per i ragazzini di ieri e di oggi, una missione impossibile
Io, Luciano, vi racconto Librino
Ore 21.30, si spengono le luci al centro Gapa, e sulle note di “Adesso tu” di Ramazzotti entra in scena lui, Luciano Bruno, unico e molteplice protagonista, pronto a dimostrare ai suoi spettatori cosa significa vivere in un quartiere “difficile” come Librino. Poco prima i registi dello spettacolo Orazio Condorelli e Giuseppe Scatà avevano tenuto a precisare che per Luciano sarebbe stata la prima volta sulla scena, che tutti e tre insieme ci avevano lavorato per un mese e mezzo e che, dopo questa esperienza, si sentivano diversi, migliori. L’augurio era che tutti gli spettatori potessero sentirsi un po’ diversi, dopo la rappresentazione.
Un riflettore viene puntato sulla figura di Luciano, il fascio di luce lo segue mentre cammina in mezzo alla sala; distribuisce delle patatine agli spettatori, seduti e sorpresi. Un gesto quasi incomprensibile si trasforma in una chiara dichiarazione di amicizia: quella fra un gruppo di ragazzini del quartiere di Librino, che in comune non avranno solo quel pacco di patatine, ma le loro vite.
C’è Pirocchiu, decisamente parsimonioso, Menzabirra, proprio bassino, Grattacielo, Tigna, bambino prodigio perché “tignoso” alla tenera età di undici anni, Lucio Dalla, instancabile fan di “Attenti al lupo” e Luciano, il capo gruppo, un punto di riferimento per tutti gli altri.Luciano è quello che si prenderà tutte le responsabilità di fronte ai grandi, quello che non avrà timore di difendere le proprie necessità di bambino, neanche davanti ad una realtà sorda e indifferente.
Un’allegra compagnia quella raccontata da Luciano che, con ironia e ilarità, ha portato sulla scena una storia vera, autenticata dalla realtà ancora vigente. La trama è essenziale ma convincente, perché sincera, il cast decisamente scarno, ma efficace, il linguaggio è semplice, e per questo più incisivo. Questi gli ingredienti salienti di un racconto che ha visto come protagonisti dei ragazzini di Librino in cerca di un campetto per giocare a pallone.
Una cosa normalissima, un desiderio accettabilissimo, si trasforma in una vera lotta; impossibile trovare un posto tranquillo, dove organizzare, in piccolo, un esilarante campionato mondiale. Varie le vicissitudini e le difficoltà incontrate durante questa ricerca: prima è il Signor Budda a lamentarsi e a redarguire i ragazzi per il rumore del pallone contro il portone; poi è la volta del Signor Luccini, che, per qualche vetro rotto, infierisce su uno dei ragazzi.
Così continua la ricerca infinita, fra l’ostinazione di Luciano e le marachelle dei suoi compagni d’avventura; sono ragazzi normali, con qualche difficoltà in più, ma quando guardano Librino vedono solo cose belle: le arance dolci come lo zucchero, i «pessica avvellutati», i «nuci caddusi» e le mele della nostra montagna. Era il tempo in cui Librino aveva tutto; anche l’acqua.
Ma un giorno un fatto eclatante destabilizza questa realtà; un giapponese, Kenzo Tange, sale sulla collina, guarda Librino, e progetta una città satellite. Con sprezzante e amara ironia Luciano, bambino protagonista, ripercorre le tappe salienti di un cammino che ha condotto al degrado del quartiere. Il progetto del giapponese poteva pure essere apprezzato, ma se si fossero rispettati i dettami iniziali, ovvero la costruzione di dieci quartieri, di passaggi pedonali, di una centrale di polizia, del teatro. In teoria, dice Luciano, «prima sarebbero dovute arrivare le infrastrutture e dopo le case».
Le cose sono andate molto diversamente e alcune figure imprenditoriali catanesi del tempo approfittarono della situazione per rendere il quartiere di Librino una zona a rischio, il luogo ideale dove smerciare droga, nascondere armi e abbandonare la gente più disagiata. Luciano e i suoi amici dicono basta. E mentre guardano a ciò che è diventato Librino, riflettono sul fatto che, alla fine, «manco una partita sono riusciti a farsi». Ormai sono tutti grandi; c’è chi è emigrato al nord per lavorare e chi è rimasto e si è fatto una famiglia. Con rammarico e voglia di denuncia Luciano dice: «Neanche se faccio tornare quelli che sono partiti o chiamo chi è rimasto possiamo fare una partita. Nel mio quartiere non è cambiato niente. Io, ho pianto gli sbagli di quelli».
Così si esaurisce uno spettacolo di denuncia sociale che, in un periodo agitato come quello attuale, apre le coscienze e spinge ad una riflessione necessaria e ineluttabile. La speranza di tutti, registi attori e spettatori, è che le cose possano trovare un nuovo equilibrio, confacente alle esigenze delle persone. Non di alcune persone.
(Foto di Giuseppe Scatà, video di Sonia Giardina)