Amicizia e parole in codice, così la droga arrivava a casa «Vita, ho sette persone a cena: mi dispiace farti tornare»

«Me li puoi portare quattro o cinque Ceres fratello?». Nel loro gergo le dosi di cocaina, di volta in volta, vengono indicate come Ceres, cataloghi o persone a cena. Parole in codice per dissimulare le richieste di droga che si celano dietro alle conversazioni. Un giro di spaccio che colpisce per la familiarità tra il pusher e i clienti, a tutte le ore del giorno con consegne a domicilio e un servizio puntualissimo per non lasciare delusi gli acquirenti, molti dei quali sono professionisti e insospettabili. Ancora una volta, la seconda in pochi giorni, un’operazione di polizia porta porta allo scoperto l’anima oscura di una Palermo in cui il consumo di droghe pesanti pare essere negli ultimi anni tutt’altro che un fenomeno circoscritto. Tanto che le organizzazioni criminali sono costrette a scendere a patti tra loro per potere soddisfare la richiesta. Richiesta che talvolta si fa pressante. Come nel caso di un avvocato che chiama con urgenza Giuseppe Cutino, una delle principali fonti di smercio della droga, secondo quanto scoperto dagli inquirenti, e lo invita ad andarlo a trovare nel suo studio, talvolta a casa o magari in un locale in viale Strasburgo. O quando una giornalista effettua le chiamate utilizzando un’utenza intestata allora all’assessorato regionale alla Sanità.

Centinaia le conversazioni e gli sms intercettati, tutte simili, criptiche, sintetiche, ma soprattutto monotematiche. Così tante che gli inquirenti sono stati costretti a filtrarle, per isolare un campione di conversazioni con dei clienti abituali in grado di dimostrare la continuità dell’attività nel tempo. Da questo emerge lo spaccato – definito «preoccupante» dal capo della squadra mobile Rodolfo Ruperti – di una fitta rete di consumatori, spesso riforniti nei pressi dei locali notturni della movida palermitana. Un commercio intimo, familiare, che si concretizzava spesso in rapporti in apparenza molto stretti tra consumatore e pusher, come nel caso di una delle clienti più affezionate, che  non disdegna di trovare nuovi clienti per Antonio Napolitano, 25 anni, un’altra delle figure principali dell’indagine, in qualche modo figlio d’arte: il padre Giorgio, già in carcere, è un noto pusher palermitano. «Si mangia bene… mangiamo bene» spiega per telefono presentando un suo amico come potenziale ottimo cliente. Ed è la stessa donna ad avvisare il proprio fornitore mettendolo in guardia per la presenza di posti di blocco delle forze dell’ordine in via Notarbartolo. 

La metafora culinaria, torna sovente negli stralci di conversazioni al vaglio della polizia. Il 14 marzo 2014, un altro acquirente invia un sms a Napolitano chiedendo sette grammi di cocaina in un linguaggio ancora un volta criptico: «Vita – dice – ho sette persone a cena, cazz se lo sapevo prima, mi dispiace farti tornare». E ancora, il giorno dopo, sempre Napolitano risponde al cliente che si lamenta perché ritiene che la droga ricevuta sia diversa da quella acquistata in precedenza: «Sembra che abbiamo mangiato diverso lì, al ristorante di ieri», e poi «no, cioè, non è mangiare nostro, non è ristorante per noi questa taverna». Anche Cutino si teneva alla larga dai luoghi in cui poteva essere soggetto a controlli, il pusher, nella maggior parte dei casi andava a casa dei clienti per evitare i luoghi pubblici. D’altra parte era stato proprio uno scambio di droga in auto a inguaiare persino un assistente di polizia, destituito poco tempo dopo essere stato beccato con un grammo di cocaina. Tra lui e il pusher tra il novembre 2012 e il giugno del 2013 sono una settantina le telefonate.  


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